Tradurre il vintage

In questi giorni ho letto con molto interesse una serie di articoli sulla nuova traduzione del Giovane Holden (per esempio questo, questo, questo e questo). Il compito che la casa editrice Einaudi ha affidato due anni fa a Matteo Colombo sembra un po’ un koan zen: ritradurre un classico moderno svecchiandolo senza modernizzarlo troppo. Cosa è filologicamente più corretto? Recuperare un lessico e un clima linguistico vicini all’italiano di un giovane di sessant’anni fa, pur non essendo Holden un giovane italiano di sessant’anni fa e nonostante i giovani italiani di sessant’anni fa non parlassero tutti allo stesso modo e forse nemmeno in italiano (o non lo stesso italiano)? Puntare a un gergo giovanile di oggi che rischia di essere obsoleto già domani oltre che anacronistico ieri oggi e domani? Optare per una via di mezzo, e cioè una lingua ibrida, fedele non a una verosimiglianza filologica, ma a una coerenza interna del testo che rispecchi, come dice giustamente Matteo Colombo, l’interpretazione, l’opinione, ovviamente parziale, che il traduttore dà del testo in questione? Ho amato moltissimo The Catcher in the Rye, che non ho mai letto in italiano, e non vedo l’ora di leggere la versione di Matteo. Quando all’epoca ho saputo che stava lavorando su Holden l’ho invidiato ma non l’ho invidiato. Immagine

M’interessano particolarmente le riflessioni attorno alla ritraduzione del Giovane Holden perché anch’io in questi giorni sono alle prese con un libro scritto vari decenni fa, quattro per la precisione. Si tratta di The Rachel Papers di Martin Amis, per Einaudi. Al contrario di Holden non è mai stato tradotto prima. Nel libro di Amis, l’influenza di Salinger c’è è si sente. The Rachel Papers è una narrazione in prima persona di un tardo-adolescente estremamente egoriferito. È, secondo molti lettori, e non saprei dire se a torto o a ragione, un Catcher in the Rye inglese, più cinico, e – anche per ovvi motivi cronologici – con più sesso, droga e rock and roll nel tessuto narrativo.

Quando lavoro su un testo non riesco a fare mio il famoso principio secondo il quale bisogna cercare di riprodurre nel lettore del testo d’arrivo lo stesso effetto che ha avuto sul lettore del testo di partenza. Perché l’effetto sul lettore del testo di partenza varia da lettore a lettore, da epoca a epoca, da un paese all’altro. Tutto questo per dire: già tradurre di per sé è sempre un’operazione che sfiora il paradosso e spesso anzi nel paradosso ci si tuffa e ci sguazza; ma tradurre dopo anni, decenni, un libro impregnato della sua epoca è ancora più paradossale. L’inglese di Charles Highway, il protagonista di The Rachel Papers (che, a proposito, ancora non ha – che io sappia – un titolo ufficiale in italiano), non è connotato temporalmente in modo massiccio. Ma è pur sempre l’inglese di un ragazzo inglese, colto e cinico dei primi anni ’70. E anche per me gli scogli da evitare saranno l’eccessiva modernizzazione e gli anacronismi più o meno involontari. Anch’io dovrò ricreare una lingua che sia allo stesso tempo credibile, ma non così cronologicamente e regionalmente connotata da risultare incongrua. Credo che un recupero metodico e sistematico di un italiano plausibile in bocca a un ragazzo italiano, colto e cinico dei primi anni ’70 sarebbe un’operazione complicata e forse non del tutto giustificata, e rischierebbe di appiattire e “macchiettizzare” una lingua che nell’originale inglese è viva ed è forse l’elemento più forte del libro stesso. Un po’ come quando in un film ambientato negli anni ’70, perché non ci siano dubbi che è ambientato negli anni ’70, tutti i personaggi hanno i basettoni, i pantaloni a zampa, i colletti larghi  e i baffi a manubrio, anche i bambini di due anni, anche i cani, e ogni parete è rivestita di carta da parati con disegni optical-vintage coloratissimi che danno il mal di mare.

Tradurre è un mestiere di poche certezze e molti dubbi. Nei prossimi giorni tornerò con qualche esempio di dubbio e proposte di possibili soluzioni. Per ora vi lascio con questo: il dildo. Lo chiamavamo così nei primi anni ’70? E se no, sarebbe giusto ricercare l’espressione usata all’epoca e usarla anche se oggi rischia di suonare ridicola e/o incomprensibile? Il parere di esperti di porno vintage è ben accetto.

17 pensieri su “Tradurre il vintage

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  2. Ciao Laura. Vibratore se vibra. Ma se non vibra? Il mio dubbio comunque è se ha davvero senso questa accortezza filologica. Nella prima edizione italiana di Revolutionary Road Adriana dall’Orto traduce T-shirt con camiciotto. Non so se l’abbia fatto perché non aveva ben chiaro che la T-shirt è una semplice maglietta a maniche corte o perché le magliette all’epoca (l’edizione americana è del 1961, quella italiana del 1964) si chiamavano effettivamente camiciotti. Sarebbe interessante approfondire la questione. Ma nella nuova edizione riveduta e corretta di minimum fax camiciotto è andato via. Ora non ricordo se sia stato sostituito da maglietta o T-shirt. Ma il discorso è, a mio avviso, che quando traduciamo oggi cose che ieri (cioè all’epoca in cui il libro è stato scritto e/o ambientato) erano sconosciute o chiamate in un modo che oggi non si usa più, l’eccessivo scrupolo filologico non sempre è auspicabile.
    Altro esempio: traduciamo black con negro per cose pre-anni politically correct e usiamo invece nero o ambientati per libri usciti in epoca successiva? Le mie sono domande non retoriche. Sembrano sciocchezze, ma davvero ci si rompe la testa a decidere come risolvere questi dettagli.

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  4. ciao Federica, adesso dico forse una banalità assoluta, e personalmente non ho mai avuto l’occasione di sperimentarla, ma hai pensato a comprarti qualche dizionario italiano/inglese dell’epoca? Mi pare di avere sentito Susanna Basso dire questa cosa a proposito di una traduzione in cui aveva dovuto lavorare su parole che ormai erano uscite dai dizionari attuali, oppure per cui si davano traducenti contemporanei. Certo, è una cosa da fare così, tanto per complicarsi ulteriormente la vita :-), non per avere l’unica soluzione a portata di mano… ma così allarghi lo spettro delle possibilità e la tua lingua si contamina, e questo secondo me è buono. Ada.

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  5. O meglio, Ada, continuo a cambiare idea. E non è una bella cosa quando si è praticamente sotto consegna. Se da una parte sarebbe bello poter fare un recupero filologicamente accurato di un italiano verosimile per quegli anni, dall’altro penso che questo abbia senso solo per certi termini che appaiono fortemente connotati e quindi desueti nell’originale. L’esempio che facevo più su a proposito di T-shirt in Revolutionary Road è un esempio calzante di quello che voglio dire. Traducendo oggi un libro degli anni ’60 come dobbiamo chiamarle le T-shirt? Camiciotti (ammesso che si chiamassero così all’epoca), magliette a maniche corte o T-shirt?

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    • Non ho una ricetta… Ma no, il filologicamente corretto al 100% no, secondo me ne verrebbe fuori qualcosa di assolutamente artificioso. La mia impressione è che non ti sarà possibile trovare una regola unica che ti copra e ti giustifichi dalla prima all’ultima riga: dovrai decidere di volta in volta, andando a naso. Un po’ aiutandoti con i vecchi dizionari, un po’ svecchiando. Per me per es. “camiciotto” no, ma magari “maglietta” sì. 🙂 Scusa la scarsa chiarezza ma sono una pessima teorica di questo lavoro.

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  6. uff, bel casino: certo che, chennesò un adolescente che parla di “matusa” sembrerebbe un marziano o un Marty McFly appena sceso dalla DeLorean, però era così che si parlava. Solo che ne verrebbe fuori un effetto straniante che è tutto il contrario di quello che lo scrupolo filologico vorrebbe restituire, cioè la “naturalezza” attraverso la fedelltà al parlato di un certo periodo…
    (e a proposito del quesito, temo fortemente che fosse qualcosa di orrendo tipo “fallo artificiale/di caucciù”, o roba simile)

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  7. Come al solito bisogna cercare un compromesso accettabile… passando ore e notti – le idee migliori a me vengono la sera mentre sono a letto – a riflettere su una parola. Attendo con curiosità i rompicapi linguistici sui quali passerai le tue giornate:)

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  10. http://www.etymonline.com/index.php?allowed_in_frame=0&search=dildo&searchmode=none
    dildo (n.)
    1590s, perhaps a corruption of Italian deletto “delight,” from Latin dilectio, noun of action from diligere “to esteem highly, to love” (see diligence). Or (less likely) of English diddle. “Curse Eunuke dilldo, senceless counterfet” [“Choise of Valentines or the Merie Ballad of Nash his Dildo,” T. Nashe, c.1593]

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  12. Il vibratore e il dildo sono – ed erano già negli anni Settanta – due oggetti differenti. Il dildo in Italia è detto volgarmente, come ti hanno già suggerito sopra, “cazzo finto”. Peraltro, “fallo di gomma” non mi sembra una cattiva traduzione.

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