Scurdammc ‘o passat

è interessante leggere l'articolo dal sito da cui ho preso l'immagine:  http://www.salon.com/2010/09/22/present_tense/

interessante l’articolo dal sito da cui ho preso l’immagine:
http://www.salon.com/2010/09/22/present_tense/

Gli anglofoni sono fortunati: hanno il past simple che va bene indifferentemente per le cose successe due secondi fa o due millenni fa. Non c’è scelta, non c’è dubbio, non c’è differenza geografica che tenga: il past simple va bene per tutte le latitudini e per tutte le stagioni.
Invece noi abbiamo il passato prossimo e il passato remoto che fingono di svolgere due funzioni diverse (lasciando da parte l’imperfetto, che svolge davvero una funzione diversa), ma in effetti sono intercambiabili, e il loro uso, nella lingua parlata, non è determinato tanto dalla distanza degli eventi, quanto dalla provenienza geografica di chi parla. A Roma e a Milano il passato remoto si usa poco, e forse è per questo che di solito i traduttori (che, al contrario degli autori che scrivono direttamente in italiano, propendono per un uso più normativo della lingua, il più possibile scevro da regionalismi, o perlomeno da regionalismi percepiti come più deboli rispetto al romano o al milanese) per i dialoghi scelgono il passato prossimo. Il tempo della narrazione, invece, il tempo che si usa per rendere i vari “he said” e “she frowned” eccetera, è di norma il passato remoto. Il problema sorge quando la narrazione è in prima persona e gli eventi narrati sono – dal punto di vista del narratore – vicini nel tempo.
All’inizio di The Rachel Papers il narratore parla al presente:

My name is Charles Highway, though you wouldn’t think it to look at me… The main thing about me, however, is that I am nineteen years of age, and twenty tomorrow.

E poi passa a narrare eventi accaduti pochi mesi prima rispetto al presente dell’inizio. È su questo terreno traduttivo che attualmente il passato prossimo e il passato remoto si stanno prendendo a cazzotti. E a me spetta il ruolo di arbitro-giudice che deve decretare la vittoria di uno dei due ai punti. Mi capita spesso di assistere a questo combattimento nei testi che traduco. Non sempre la vittoria di uno dei due è schiacciante e a volte chi alla fine perde vince comunque qualche round. Può succedere che tra i due litiganti sia il terzo a godere: il trapassato prossimo. Ricordo quasi con sofferenza fisica la traduzione di There But For The di Ali Smith (in italiano C’è ma non si, edito da Feltrinelli). La stesura della traduzione di questo libro detiene, credo, il primato del maggior numero di cambi relativi ai tempi verbali. Paragrafi, capitoli interi scritti al passato remoto. Che poi però risultava incongruo, perché c’era anche un presente che era molto vicino a quel passato. Allora via il passato remoto e avanti il passato prossimo. Ma poi in fase di rilettura ti rendi conto che tutti quegli “ha detto”, “ha sospirato”, “si è seduto”, “si è stretta nelle spalle” sono oggettivamente orrendi. E quindi cambi di nuovo al passato remoto. Ma rileggendo ti rendi conto che quel passato remoto descrive azioni successe pochi giorni prima rispetto al presente. Allora nell’ordine: 1) imprechi; 2) piangi; 3) pensi di usare il trapassato prossimo perché è più vago; 4) lo usi sul serio e ti rendi conto che è peggio del passato prossimo e del passato remoto; 5) trasformi tutto al presente; 6) ritorni al passato remoto; 7) ritorni al passato prossimo; 8) scrivi una nota al revisore spiegandogli tutti i tuoi dubbi sui tempi verbali e aspetti di sentire anche il suo parere in merito. Alla fine non ricordo più cosa ho scelto per il capitolo di C’è ma non si che più mi ha fatto penare.

Ci si può chiedere: come narrerebbe questi eventi un autore che scrivesse direttamente in italiano? Non è facile darsi una risposta univoca. Probabilmente opterebbe direttamente per un presente storico. O, se il passato è percepito come molto vicino al presente, userebbe il passato prossimo, ma opererebbe un’inconsapevole censura di elementi descrittivi che in italiano suonerebbero oggettivamente male al passato prossimo, soprattutto se affastellati (i vari “ha detto” e “ha aggrottato le sopracciglia” di cui sopra). E comunque, un autore italiano tende a usare meno disse/ha detto, soprattutto se è ovvio chi è che sta parlando, e in generale fa meno ricorso alla descrizione di movimenti del corpo e di espressioni facciali. È così, è la natura della nostra lingua, letteraria o parlata che sia. Natura che sta cambiando, però, in ambito letterario, anche a causa dell’influenza delle traduzioni dall’inglese: ora anche nei testi scritti direttamente in italiano troviamo numerosissimi “disse” pleonastici (pleonastici per un orecchio italiano, l’orecchio anglofono evidentemente li percepisce come meno pleonastici), gente che fa spallucce e così via.

Come sempre quando si parla di traduzione non si possono proporre soluzioni che vadano bene sempre, ma bisogna navigare a vista, a seconda del testo, cambiando rotta tante volte, mettendo in conto di sbagliare strada e dover tornare indietro. Quando il passato prossimo e il passato remoto risultano alternative ugualmente insoddisfacenti, evitando di snaturare troppo la natura del testo, si possono prendere varie decisioni:
1) eliminare un po’ di “he said” “she said”. Lo so, sono la cifra stilistica di autori come Raymond Carver e i suoi più o meno consapevoli epigoni, ma sinceramente, dopo un po’ risultano stucchevoli. E soprattutto, in italiano non danno quel senso di narrazione orale che vogliono dare in inglese. Se in inglese esiste questo modo di dire e in italiano no ci sarà un motivo;
2) trasformare un po’ di frowned, shrugged e compagnia bella nel sentimento che vogliono esprimere. E questo per due motivi: uno è che non usiamo i corrispettivi italiani con tanta frequenza, né nella lingua scritta né tanto meno nella lingua parlata, e il secondo è che frown e shrug sono parole singole di cinque lettere ciascuna, mentre “aggrottare le sopracciglia” e “stringersi nelle spalle” sono espressioni composte da tre parole, che appesantiscono il testo;
3) tertium datur est, a volte: il presente. Non tutti i traduttori se la sentirebbero di prendersi questa responsabilità e usare il presente per un libro scritto interamente al past simple (e non tutti i revisori avallerebbero questa scelta). Ma per alcuni segmenti di testo è senz’altro l’unica via possibile, soprattutto quando si parla di cose vere tutt’ora (l’ora del presente narrativo come del presente di chi legge), o di concetti genericamente veri (o percepiti o descritti come tali). Se in inglese, per esempio, abbiamo una frase tipo: “He said that water boiled at 100° Celsius” in italiano non possiamo, secondo me, rendere boiled con un passato (che in questo caso sarebbe un imperfetto, ma vabbè). In inglese è accettabile, in italiano suona incongruo. O almeno suona incongruo al mio orecchio, non so al vostro.

Ciò detto, io non ho ancora deciso come comportarmi con i tempi verbali di The Rachel Papers. Per ora ho optato per il passato prossimo. Aspetto di arrivare al momento della prima rilettura, che non è lontano per fortuna, sapendo che cambierò tutto al passato remoto e poi di nuovo al passato prossimo e poi di nuovo al passato remoto e così via, fino al giorno della consegna.

6 pensieri su “Scurdammc ‘o passat

  1. Mi hai letto nel pensiero, proprio in questi giorni sono alle prese con un racconto di Joyce Carol Oates. Ho scelto d’istinto il passato prossimo anche io in alcuni punti…Prima di leggerti avevo appena preso la decisione di aspettare la lettura finale per decidere se poi sostuire. Leggendoti ne sono ancora più convinta. Grazie, bellissimo post!

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  2. Tutto molto vero. Mi ritrovo spesso con frasi che nell’originale inglese dichiarano verità sempre valide, alla stregua di “L’acqua bagna”, ma con i verbi coniugati al passato. E non ci penso neanche a mantenere gli stessi tempi verbali in italiano. E puntualmente finisco per domandarmi quanto la lingua prescinda dalla logica e come mai sia possibile dire che l’acqua bagnava, in una lingua qualsiasi.

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