La ragazza che traduceva libri brutti

cat_writingIl rapporto AIE del 2013 ci dice che in Italia un quinto dei libri pubblicati sono tradotti da un’altra lingua. Venti anni fa erano un quarto. La tendenza è in calo, ma non è detto che di per sé sia una cosa negativa. In Italia abbiamo il problema opposto rispetto all’America (e al Regno Unito) dove solo il 3 % dei libri pubblicati sono stati scritti originariamente in una lingua diversa dall’inglese (a tale proposito leggete l’interessante articolo di Silvia Pareschi su Nazione Indiana): il problema è che forse (forse) si traduce troppo. Soprattutto si traduce troppo dall’inglese. La domanda che mi pongo non è retorica, davvero vorrei che qualcuno mi desse una risposta soddisfacente: cosa spinge una casa editrice a comprare i diritti di un libro brutto e che probabilmente non venderà? Non credo che siano sempre clausole poste dagli agenti quando si contratta l’acquisto dei diritti di autori più validi o vendibili.

Non c’è niente di più difficile da tradurre di un libro scritto male. Non è questione di gusti: i libri scritti male sono libri in cui l’editing è stato scarso o del tutto assente, libri di 500 pagine di cui 300 si potrebbero eliminare senza colpo ferire, libri andati in stampa con errori che l’autore o l’editor avrebbero potuto evitare con una semplice ricerca su Wikipedia e che invece sarà il traduttore a scovare e a correggere (chiedendo prima il permesso all’autore), libri che sembrano saggi di scuole di scrittura creativa dei primi anni ’90, libri che esplorano tutti le sfumature della banalità, libri inutili, diciamolo, perché non è vero che tutti i libri sono sacri e che l’importante è leggere.
In un’Italia ideale un traduttore potrebbe permettersi di tradurre solo libri bellissimi e profondi, vergando la prima stesura con pennino d’oca e inchiostro ferrogallico, con la musica classica in sottofondo e la fantesca (cit.) che si prende cura delle faccende domestiche. Ma per il momento, soprattutto noi che traduciamo dall’inglese, se vogliamo continuare a lavorare, dobbiamo mettere in conto che tradurremo ancora una valanga di libri sciatti, insulsi, scritti male e curati da editor incapaci. Una sola domanda, però: ma perché, soprattutto se già si sa che non avranno vendite soddisfacenti. Perché?

10 pensieri su “La ragazza che traduceva libri brutti

  1. Pingback: La ragazza che traduceva libri brutti di Federi...

  2. Magari, viste le critiche mosse dal suo post, provi la prossima volta a prestare più attenzione agli errori che lascia lei nel suo testo.

    “Ma per il momento, sopratutto noi che traduciamo dall’inglese, se vogliamo continuare a lavorare, dobbiamo mettere in conto che tradurremo ancora una valanga di libri sciatti, insulsi, scritti malie e curati da editor incapaci.”

    – sopratutto
    – malie

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  3. Ciò che, nel mio piccolo, trovo ancora più preoccupante è vedere che i libri sui quali non avrei mai scommesso non solo vengono pubblicati, ma vendono e piacciono ben più di quanto io avrei creduto possibile. La delusione più grande è proprio questa, perché se io posso tradurre un libro brutto e rassegnarmi all’idea (a fatica, ma rassegnarmi), dall’altra parte mi deprime il fatto che si stia formando un pubblico a cui piace leggere libri brutti, insulsi e sciatti. Si sta formando un pubblico ignorante che, con la scusa che l’importante è leggere, scivola nel baratro del luogo comune, del libro prodotto in serie, dell’italiano approssimativo, della nozionistica sciatta da bar, più velocemente di quanto farebbe restando banalmente davanti alla tv. E se un unico libro brutto si può tradurre senza soffrire troppo, quando il pubblico chiede a gran voce libri brutti è un vero dramma.

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    • @Giorgia, spesso le case editrici ti dicono che con le vendite dei libri brutti ma di successo possono permettersi di pubblicare anche cose belle che vendono poco. E’ un discorso che possiamo trovare deprimente, ma è la logica (deprimente) del capitalismo. I libri brutti, con velleità letterarie, che è facile prevedere che non venderanno e che infatti non vendono rimangono un mistero.

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  4. Probabilmente dovremmo concentrarci sulla bruttezza editoriale, più che su quella letteraria. Mi spiego: un libro può essere brutto (continuiamo a usare quest’aggettivo e i suoi derivati) perché non ci piace quel genere letterario, ma secondo me se è ben curato (in tutt’i suoi aspetti) l’autore s’è guadagnato il diritto di vedersi pubblicare il risultati delle sue fatiche.
    Invece ormai non sembra esserci molta attenzione alla forma: anche solo facendo valutazioni di manoscritti si vede come gli aspiranti autori non si preoccupino affatto di presentare un testo ben curato. D’accordo che ci sarà tutto il processo della revisione e della correzione di bozze, ma se fossi un autore mi vergognerei a presentare un testo così, e se fosse chi decide a un certo punto smetterei di leggerli proprio questi testi sciatti.
    Ancora più grave (forse; diciamo che se la giocano) è quando si compra un libro che continua a non essere curato nonostante sia passato (sarebbe dovuto passare?) sotto gli occhi e la penna rossa di più persone.

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  5. Una manciata di pensieri sull’argomento: siamo in epoca di self-publishing e non possiamo ignorarlo. Ottimo veicolo di diffusione di buoni e di cattivi libri. Presupposto questo, i libri sono – come i giornali e l’espressione orale – un mezzo di diffusione delle nostre idee. Il mondo è bello perché è vario, ci sono buone idee e cattive idee e abbiamo tutti il diritto di esprimerle. L’impatto sul pubblico è dato dalla loro vendita, che premia le idee più popolari (non le migliori, attenzione!). In questo rapporto, il traduttore dov’è? Nella scelta di tradurre o meno un testo che ritenga brutto. È vero, il mercato è quello che è, ma è anche vero che si può provare a lavorare con altro materiale,, magari con testi di marketing, o cambiare approccio, invertendo la direzione della richiesta di collaborazione autore -> traduttore. Scoviamo noi un testo che ci piace e proponiamo all’autore di tradurlo, vada come vada. Oppure possiamo decidere di tradurre il testo brutto e di renderlo bello, poi pretendere che ci venga riconosciuto in pubblico il merito di averlo reso migliore. Alcuni autori lo fanno, altri no. Questa è sicuramente la via più difficile. Personalmente, dopo anni di ‘altro’ ho scelto la seconda ipotesi ed ho avuto la fortuna di incontrare un autore che non solo ha apprezzato il mio approccio fattivo, ma mi ha anche ringraziato in privato e pubblicamente. Il libro non sta avendo gran fortuna, ma non importa, vendere libri è tutt’altro che facile anche in quest’era digitale. Ho pazienza. Circa il concetto di bello e brutto, ricordiamoci tutti che ‘De gustibus non disputandum est’, per cui chi siamo noi a decidere cosa sia bello e cosa no? Alle volte c’è bellezza anche nella bruttezza delle cose, c’è un Oscar recente a provarlo, Quanto all’educare il pubblico, è già tanto che si legga, le lezioni lasciamole ai professori …

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    • Cara Lidia, grazie per il tuo commento. Io in realtà con “brutto” intendevo qualcosa che va un po’ al di là del “de gustibus”. Se un libro contiene imprecisioni e incongruenze è oggettivamente curato male da un punto di vista editoriale, è redazionalmente brutto. Poi, certo, a parte queste imprecisioni può piacere, può essere considerato ben fatto, proprio come una buona traduzione non può essere inficiata dalla presenza di refusi, per quanto questi oggettivamente infastidiscano il lettore.
      Sul discorso di abbellire i libri non sono molto d’accordo. Nel senso: se ci sono delle imprecisioni lampanti io contatto sempre l’autore (se è vivente e contattabile) e gli chiedo se posso cambiare. Ma se traduco un libro con una scrittura sciatta, non me la sento più di tanto di abbellirla. Ci sono redazioni che te lo chiedono, e questo succede soprattutto per libri considerati di facile consumo, ma davvero, non sono sicura che al traduttore competa fino a questo punto anche il ruolo di editor.

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      • Cara Adriana, grazie per il chiarimento. Concordo che l’editore abbia la sua abbondante parte di responsabilità nella bruttezza di un libro,sempre che non si parli di ebook e di ‘autoeditoria’, che è quasi completamente autogestita. Personalmente – e non da traduttrice – mi sono trovata a leggere libri in cui mancavano letteralmente parole nel testo, che ho dovuto mentalmente completare, un assurdità completa per un libro ‘stampato’, considerato quanto costi produrlo. Per quanto concerne la questione dell’abbellire o meno il testo, è una scelta spinosa e molto personale: ad alcuni traduttori viene chiesto di lavorare anche da editor, si può decidere di offrire il servizio tutto compreso o meno, è una scelta personale. In presenza di autori dotati di una sana umiltà, si può fare, anzi, è quasi naturale farlo, il limare un po’ il testo per calarlo meglio nella realtà del mercato di destinazione, tutto sommato, fa parte del processo di localizzazione intrinseco nel lavoro di traduzione. Ovviamente non parlo di rendere belle delle innegabili mostruosità, ma di rendere più digeribili al nostro palato espressioni che, se rese tali e quali, hanno un sapore alieno e innaturale. È comunque questione di punti di vista e di diverso approccio al lavoro di traduzione, c’è chi è disposto, chi no e forse pure chi osa troppo. Un caro saluto!

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