Come si diventa traduttori letterari

11220044_addio-ad-angelo-infanti-il-manuel-fantoni-di-borotalco-0I know why the caged bird sings 

Sono un ragazzo fortunato perché m’hanno regalato un sogno
Jovanotti

Da un paio di anni, nel programma per gli esami di terza media, includo delle poesie brevi e facili da leggere e commentare, cose semplici di Emily Dickinson, e.e. cummings, Samuel Beckett, Walt Whitman, Charles Bukowski, Elizabeth Bishop, Robert Frost e altri. Quella che però ha avuto più successo di tutte, quella che ogni anno è stata scelta dalla maggioranza dei miei alunni è “Dreams” di Langston Hughes:

Hold fast to dreams
For if dreams die
Life is a broken-winged bird
That cannot fly
Hold fast to dreams
For when dreams go
Life is a barren field
Frozen with snow.

Ho scelto questa poesia perché è semplice, ma confesso che non mi piace. Però piace ai miei alunni. Che sono uomini adulti, detenuti. Parlare con dei detenuti dei sogni che ti impediscono di diventare come un uccello con le ali spezzate che non può volare o un campo che non dà frutti ghiacciato dalla neve può provocare nell’ascoltatore reazioni che vanno dal cinismo al sentimentalismo. I sogni dei miei alunni (per lo meno quelli che raccontano a me, per lo meno i sogni che fanno mentre sono dentro) sono: tornare a casa, cambiare vita, fare i figli, vedere sistemati i figli che già hanno. Ma soprattutto trovare un buon lavoro. Un detenuto che sogna di trovare in Italia un buon lavoro per riuscire a mantenersi e cambiare vita: qui anche l’ascoltatore più orientato verso il massimo del cinismo avrebbe un tuffo al cuore per il disagio.

Il lavoro dei sogni

Tread softly because you tread on my dreams
W.B. Yeats

Ai traduttori ogni tanto capita di ricevere e-mail da aspiranti traduttori letterari (tutto questo, immagino, capiterà anche agli scrittori, ma moltiplicato per 100). Vogliono dei consigli su come entrare nel mondo dell’editoria, dicono che tradurre libri è il sogno della loro vita. Io rispondo, brevemente, volentieri e non senza qualche imbarazzo. Maneggiare sogni altrui è imbarazzante. È imbarazzante parlare con gente che ti vede in una posizione invidiabile o di privilegio. E tu ti devi trattenere – e non sempre lo fai – dal fare l’elenco delle cose negative di questo lavoro, dallo sconsigliare caldamente di perseguire questa strada prospettando l’emigrazione come l’unica via. Ti devi trattenere – e non sempre ci riesci – dal diventare la parodia di uno di quei detective anziani e scafati che sbeffeggiano il collega pivello immaginando che se la darà a gambe davanti al primo cadavere sbudellato.
Nel mondo dell’editoria i cadaveri sbudellati sono i pagamenti che arrivano con ritardi biblici o non arrivano proprio, le revisioni fatte male, i contratti per 9 Euro a cartella o anche meno; il cadavere sbudellato è quell’editore che prima ti chiamava e ora non ti chiama più, è non arrivare a fine mese e dover per forza fare almeno un altro lavoro, è dormire poco, passare giornate intere in pigiama in un prolungamento innaturale dello stato di abbrutimento universitario pre-esame. Ci viene voglia, a volte, di imitare la voce di un doppiatore di James Cagney e di sbattere tutte queste cose in faccia agli aspiranti traduttori. Perché in genere chi vive un disagio un po’ si innamora di quel disagio, un po’ ci si identifica e lo fa diventare una specie di iniziazione superata che lo distingue dalla massa e lo convince di essere più forte e sveglio degli altri: come per esempio vivere in un quartiere periferico di Roma est o lavorare nel mondo dell’editoria.

Sì, vabbè, ma come si diventa traduttori?

I stopped looking for the Dream Girl, I just wasn’t one that wasn’t a nightmare.
Charles Bukowski

C’è questa vecchia pagina sul sito di Biblit che offre una serie di consigli ancora validi. Per il resto io posso solo dire che traduco grazie a una serie di abbandoni: ho deciso di abbandonare l’Irlanda e un dottorato. Poi ho deciso di andar via da Torino dove – per motivi ancora non ben chiari a me stessa – mi ero trasferita dopo Dublino. Il lavoro che mi ero trovata a Torino, in uno studio che si occupava della creazione e la gestione di siti web, non c’entrava niente con me. Ricordo quel periodo e il mio rapporto con i colleghi come un incubo. Ricordo questo personaggio, C., una specie di capo fuori sede, un incrocio tra Manuel Fantoni e Walter Finocchiaro, che veniva ogni tanto nello studio e chiacchierava con i miei colleghi maschi di cose di lavoro, di musica e di femmine, e dopo vari minuti mi guardava e diceva: “Ah, ma c’è anche Federica. Ciao, Federica, non ti avevo vista, quando sei arrivata?” Questa gag si è ripetuta più o meno uguale per mesi, finché non mi hanno licenziata (senza che mi avessero mai regolarmente assunta). Ho abbandonato Torino e poi ho abbandonato il mio sogno di lavorare come attaché culturale negli Istituti Italiani di cultura all’estero (dopo un esame a puntate che mi si è mangiato tutto il 2002) e mi sono ritrovata a Roma a frequentare un master (scoperto per caso, cazzeggiando un giorno su internet, e su suggerimento di Maria Grazia, l’ex-ragazza di un mio amico) grazie al quale ho fatto un’esperienza lavorativa in minimum fax.
E di lì è cominciato tutto. Avevo 33 anni. Se non avessi lasciato l’Irlanda e il dottorato, se Maria Grazia non avesse lasciato il mio amico e l’Irlanda, se io non avessi lasciato Torino, ora non tradurrei libri. E soprattutto non tradurrei libri se il Manuel Fantoni calabro-torinese non mi avesse aperto gli occhi dicendomi parole solo in apparenza coatte e sessiste, ma che, dopo una lettura più profonda, in realtà mi volevano dire: “Federica, tu non sei qui, non è questo il tuo posto”. Se io oggi traduco libri è un po’ anche grazie al Manuel Fantoni di via Po.

Conclusioni

… c’è qualcosa
di vero nel tuo sogno, una visione

nitida che ci sfugge. E per questo ti scrivo. Perché so,
adesso so che siamo qui davvero […]
e ci teniamo per mano in mezzo a tutte
queste macerie…
Vittorio Sereni

La verità – la verità per me, ovviamente – è che per quanto possiamo proporci, sono altri a sceglierci. Altri che hanno tutto il diritto di ignorare il nostro curriculum e che hanno tutto il diritto di affidare un libro, un progetto su cui hanno investito tempo e soldi, a chi cavolo gli pare. La verità è che l’editoria è in crisi sul serio (leggetevi Pazzi Scatenati di Federico Di Vita e Come finisce il libro di Alessandro Gazoia) e che se si vuole vivere meglio e più serenamente bisogna mettere in conto di dover fare anche altri lavori, oltre a tradurre. La verità è che l’inglese è inflazionato, la concorrenza è spietata. La verità è che per le altre lingue c’è meno concorrenza, ma anche meno richiesta. La verità è che siamo in Italia, dove di norma i traduttori cedono i diritti d’autore per vent’anni, faticano a prendere più di 18 Euro a cartella e alcuni sono convinti che lavorare per la metà se non gratis sia una forma d’investimento per il futuro, un futuro rimandato sine die. Siamo in Italia, un paese nella cui costituzione non compaiono le parole “sogno” e “felicità”, un paese cinico che si innamora dei suoi difetti e delle sue anomalie e li trasforma in riti di iniziazione, in medaglie da appuntarsi al petto.
Se volete tradurre e ci tenete davvero, se siete bravi, quasi sicuramente prima o poi ci riuscirete. Ma intanto fate tante altre cose, perché per tradurre ci vuole anche tanta esperienza di vita e di ascolto e perché fondamentalmente la traduzione letteraria è quella cosa che accade mentre siamo impegnati in altri progetti e se non abbiamo anche altri progetti, tradurre non è un sogno, ma un incubo.

13 pensieri su “Come si diventa traduttori letterari

  1. Grazie Federica, un articolo bellissimo! Aggiungerei solo una cosa: “siamo in Italia” è vero soltanto per il lavoro – perché, ovunque tu sia, se sei un traduttore letterario italiano lavorerei perlopiù per editori italiani, benché la tassazione sia diversa a seconda del paese di residenza e questo già può fare la differenza -, ma un traduttore letterario può vivere dove gli pare (soprattutto perché conosce molto bene almeno un’altra lingua) e permettersi di pensare “sì, voi siete in Italia, ma io no!” per tutto il resto della sua vita (istruzione dei figli, gestione familiare, assistenza sanitaria ecc.). Questo è un grande vantaggio del nostro mestiere e, almeno nel mio caso, mi ha molto aiutato a diluire l’amarezza, pur con tutti i problemi e i rimpianti che sono l’altra faccia della medaglia del vivere all’estero. Un abbraccio da Lipsia!

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  2. Ciao, concordo pienamente sul fatto che, normalmente, non si possa vivere di sole traduzioni.
    Ma rifacendomi alla mia personalissima esperienza posso dire: “non è mai troppo tardi”.

    La mia attività di traduttore è, al momento, molto limitata e il mio caso è forse abbastanza singolare. Dopo un’esperienza lavorativa più che trentennale, di tutt’altro genere (nel campo ICT), alla vigilia della pensione, ho deciso di rispolverare la mia laurea in Lingua e Letteratura Inglese e di cimentarmi nel mestiere del tradurre come freelance e a part-time.
    Inizialmente mi sono proposto, anche se in modo non molto determinato, come traduttore tecnico/scientifico avendo maturato conoscenze appunto nell’informatica/telematica ma senza successo. Mi è poi capitato di iniziare a tradurre, per semplice esercizio personale, un libro di un autore indiano di lingua inglese. Presentato a vari editori: disinteresse totale! (tra l’altro già tradotto in altre lingue). Che sia a causa dei due marò detenuti, mi sono detto, mah!
    Poi ho conosciuto per caso una piccola casa editrice che mi ha proposto di tradurre un saggio di un autore inglese a cui sto iniziando a lavorare e che dovrebbe essere pubblicato. Quindi sarei diventato un traduttore letterario, e ciò non mi dispiace, anzi. Ma aspettiamo gli sviluppi … Ho sempre coltivato un mio desiderio nascosto di svincolarmi da puri temi tecnologici.
    Mi rendo conto comunque di trovarmi in una posizione molto diversa dalle esperienze di chi giovane oggi si accinge ad affrontare un mestiere, concordo pienamente, difficile e spesso ingrato che non permette, se non a pochi fortunati, di vivere decentemente.
    Buona serata.
    Paolo

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  3. Grazie per l’articolo.
    Ahimè molto realistico, per il semplice motivo che, dopo una laurea in Scienze della Mediazione Linguistica conseguita dieci anni fa, con l’obiettivo di andare fuori per lavorare nel campo che avevo scelto, sono stata costretta – per motivi familiari – a restare in città e in casa, e ho dovuto accontentarmi di esperienze lavorative che, mi sono servite a capire come viene considerata questa professione, da noi…

    Buona traduzione a tutti!

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  4. Grazie per l’articolo, but how many of those very many people who say they translate into or from English (which you say is “inflazionato”) have REALLY mastered the language and can produce texts that SOUND LIKE NATIVE ENGLISH?? Very few, I would imagine. That is for me also a real problem in the world of translation – too many people producing too many mediocre translations, no matter what language they translate into…

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    • Thank you. One should translate only into his/her native tongue, so the task of producing texts that sound like native English is only a native English translator’s concern. Having said that, I think translators need to master also the language(s) they translate from, otherwise they’ll run the risk of producing something that is flowing and natural-sounding all right, but that has very little to do – in terms of register, nuances and sometimes also meaning – with the original text.

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