Imparando anche a sanguinare

Sbagliando si impara. Traducendo si sbaglia tanto. E quindi traducendo, come logica sillogistica vorrebbe, si impara tantissimo. È vero, s’impara moltissimo. Ma non è un processo indolore: comporta sangue, bestemmie e figure di merda. Quando tengo un corso di traduzione ovviamente lavoro su testi tradotti da me, spesso sono cose già pubblicate, su cui ormai non si può più intervenire se non in un’eventuale ristampa. Ebbene, puntualmente, analizzando questi testi con gli studenti, a ogni piè sospinto trovo errori, inesattezze, ineleganze*. Ma sono soprattutto gli studenti a trovare gli errori, e in una situazione del genere, io – come qualsiasi insegnante – mi trovo davanti a un bivio: 1) difendere/minimizzare l’errore nella (vana) speranza di non perdere troppo la faccia 2) ammettere candidamente la presenza dell’errore e reprimere il desiderio di piangere.

Non sempre viene da piangere, a volte sono sciocchezze, passate inosservate a te e al revisore per una strana coincidenza di stanchezza e distrazione tua e sua che convergevano** proprio sullo stesso punto. A volte però sono errori grossolani, che avresti potuto evitare con una ricerca in più e con uno sticazzi in meno.

Tre anni fa, durante un seminario, uno studente tra i più brillanti che ricordi di aver avuto (per quel poco che si può capire nelle ore del corso e nella correzione delle prove) mi chiese, con molto garbo, perché avessi tradotto l’inglese “crew” riferito a un gruppo di writers con la parola “gang”. Già, perché? Non me lo ricordavo all’epoca che erano passati pochi mesi dalla consegna, figuriamoci se me lo ricordo adesso che sono passati quasi quattro anni. Comunque, lui mi disse che in italiano il termine più comunemente usato era “crew” e io mi chiesi allora e continuo a chiedermi adesso perché all’epoca non mi fosse saltato in mente di chiedere conferma a un esperto del settore.

I motivi per cui possono sfuggirti errori del genere sono tanti: convinzione errata di sapere come si rende un determinato termine, mancata comprensione del testo di partenza, stanchezza, sottovalutazione delle competenze e della cazzimma saputella di chi leggerà la tua traduzione.

Ecco, due parole veloci sulla cazzimma saputella dei lettori, nonché di colleghi traduttori. Ogni traduzione che venga pubblicata, nel senso più ampio del termine, sotto forma di libro, articolo di giornale, doppiaggio e sottotitolaggio ecc., è passibile di aspre critiche e ne riceverà sicuramente più di una in sedi anche pubbliche (blog, forum, commenti sui social network ecc.). Ecco, c’è poco da fare, tocca starci e non difenderci a spada tratta o invocare l’intervento di altri colleghi. È il rovescio della medaglia della crescente (è una crescita lenta, ok, ma c’è) visibilità del traduttore.

E ora un piccolo intermezzo musicale

Tempo fa, sul blog di DoppioVerso, Chiara Rizzo ha pubblicato un post molto divertente sui suoi errori di traduzione. Alla fine è così che vanno presi, con serietà e umiltà, ma anche con leggerezza. Perché in fondo, se uno è intelligente e non soffre di una insicurezza patologica impara che nascondere i propri errori non paga. Gli errori vanno ammessi con grazia e umiltà, anche se fanno male, anche se chi te li fa notare poi di suo ne fa, nello stesso campo, il quadruplo dei tuoi e ti verrebbe da rispondergli “parli proprio tu che hai tradotto abusive con abusivo”.

Nascondere gli errori come fa un gatto nella lettiera con i suoi escrementi, o come quello che si passa la mano tra i capelli per dissimulare un saluto andato a vuoto è un istinto umanissimo, ma fondamentalmente patetico. Andando avanti ne commetteremo meno di ieri, ne commetteremo di diversi, ma gli abbagli, le imprecisioni ci saranno sempre, sono un segno che stiamo ancora imparando, che siamo ancora giovani, che siamo vivi.

Ciò non toglie che la cazzimma saputella sia una piaga (dei) social che dopo un po’ rompe l’anima anche ai santi. Ma va ignorata, alla fine va ignorata, sì.

*sì, credo di aver appena inventato questa parola.

** volevo usare il passato prossimo, ma qual è il participio passato di convergere?

9 pensieri su “Imparando anche a sanguinare

  1. “Converso” come participio passato di “convergere” è quasi altrettanto demenziale di “perplimere” da cui deriva “perplesso”. Se penso che una cosa che non mi convince mi “perplime” mi butto per terra dal ridere. Eppure è vero, esistono tutti e due.

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  2. E io che pensavo che la parola inventata fosse “cazzimma”!

    Per quanto riguarda l’intervento in sé, l’ho trovato molto interessante, e mi fa riflettere sulla questione degli errori. Essendo ancora agli inizi, nessuno mi ha ancora fatto notare errori veri e propri, sciatterie e/o ineleganze varie. Razionalmente è ovvio che ricevere questo tipo di osservazioni sia un modo per imparare e crescere come traduttore ma, chissà, inizialmente non credo la vedrò così…

    Andrea

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  3. Imparare a sanguinare … è una parola, anche per chi, come me, per motivi vari e variegati traduce spesso ‘senza rete’, ovvero senza intervento di revisore. Razionalmente, di fronte all’errore – spesso un refuso, tipico marchio del traduttore insicuro che rimaneggia il suo testo 10, 100, 1000 volte e si dimentica ‘qualche pezzo’ da qualche parte – mi dico: ma dai, errare è umano, perché vergognarsene? Ma, in verità, è la nostra stessa natura inquieta e dubbiosa di traduttori che ci fa dolere nel profondo, che ci rende ancor più insicuri dei nostri mezzi espressivi, perché mette a nudo proprio quella nostra congenita mancanza di fiducia in noi stessi che, talvolta, ci fa sentire inadeguati di fronte al nostro compito. Noi traduttori siamo una razza ‘strana’, che si scaglia contro l’errore del collega e poi si arrocca sulle proprie posizioni, difendendo a spada tratta le proprie scelte linguistiche. L’unica verità è che, da bravi insicuri, avanziamo per non arretrare, usiamo tattiche offensive per coprire le nostre scarse difese e, si, siamo molto, anzi troppo ‘umani’. La lingua non è una scienza esatta, non esiste la ricetta perfetta, ma proprio per questo noi traduttori ci sentiamo così vulnerabili. Siamo professionisti, vorremmo essere incrollabili nelle nostre convinzioni, essere a prova di critica ma non ci riesce, è più forte di noi. Personalmente, ancora oggi ‘sprofondo in un buco’ tutte le volte che scovo errori nelle mie traduzioni, pur se minimi, pur se scoperti nell’intimità del salotto di casa mia. Non nascondo i miei errori, quello no, anzi, ‘metto le mani avanti’, sbandierando i miei errori con aria contrita. L’eccesso di umiltà paga? Non lo so, ma mi rende un po’ più digeribile l’onta di mostrarmi fallibile.

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  4. Pingback: Le correzioni | Federica Aceto

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