Gli occhi degli altri

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Martin Amis da molto giovane

Questo articolo comparso qualche giorno fa sul Fatto Quotidiano passa in rassegna alcuni titoli e autori tradotti in italiano con un ritardo di decenni e si interroga sui possibili motivi di queste pubblicazioni differite. La mia ignoranza in fatto di strategie e marketing editoriale mi impone di tacere su questo punto. Timidamente, mentre traducevo L’invasione degli Space Invaders di Martin Amis, mi chiedevo se quella operazione avesse senso culturalmente e commercialmente.
Non mi sono posta queste domande traducendo Il primo romanzo di Martin Amis, pubblicato da Einaudi qualche giorno fa come Il dossier Rachel, dopo ben 42 anni dalla sua pubblicazione in inglese. È un romanzo acerbo, per certi aspetti grezzo, molto primi anni ’70, (mentre traducevo avevo nello sfondo della mia mente, sempre, una carta da parati tipo questa). Ma la scelta – seppure tardiva – di pubblicare il primo romanzo di un autore come Amis, che ha un suo seguito nel pubblico dei cosiddetti lettori forti e soprattutto tra gli stessi scrittori, mi pare giusta e sensata. Un traduttore si chiede sempre (o almeno io me lo chiedo sempre, ma credo che più o meno silenziosamente lo facciamo un po’ tutti) se è stato all’altezza del compito, se ha operato le scelte giuste, se ha indovinato registri e voci. Rileggendone alcuni pezzi insieme agli studenti nell’ambito di un paio di corsi di traduzione che ho tenuto confesso di aver trovato qualche difetto, qualche sbavatura, di quelle che io considero fisiologiche, normali in una qualsiasi traduzione, e alle quali però non ti abituerai mai. In calce all’articolo sopra citato del Fatto Quotidiano c’è un commento di Tim Parks che, confesso, mi ha inquietato: “Fatto sta che libri tipo The Rachel Papers o The Old Devils, divertentissimi, sono cosi densi di riferimenti alla cultura inglese e dipendono così tanto da giochi di parole per i loro effetti che si capisce che difficilmente avranno grande successo in traduzione, sia in Italia o altrove… La cosa curiosa è che vengono pubblicati adesso.”
Ecco, Tim Parks che dice che difficilmente una (tua) traduzione (che non ha ancora letto, ok, ma poco conta: è Tim Parks!) avrà successo non ti fa sentire esattamente a tuo agio. Sul discorso dei riferimenti alla cultura d’origine e alla presenza di giochi di parole mi permetto di dissentire come possibile ostacolo al successo di un libro mi permetto di dissentire. Fino a un certo punto, nel senso che sì, alcuni libri, come quelli di Ali Smith che ho tradotto che ruotano attorno a certi riferimenti culturali e ai giochi di parole, difficilmente potranno avere un ampio successo di pubblico in traduzione. Ma questo non è un motivo sufficiente per decidere di non tradurli. È anzi meritorio che una casa editrice decida di investire nella pubblicazione di libri che probabilmente non saranno successi commerciali eclatanti, libri di decenni fa come The Rachel Papers (che lo stesso Amis ha in parte disconosciuto) o End Zone, secondo romanzo di DeLillo, libro per nulla acerbo e immaturo, ma complessissimo e intriso di tematiche interessanti ma anche quelle molto fine anni ’60-primi anni ’70 (traducendo quel libro non avevo in mente una carta da parati floreale, ma immagini in bianco e nero su un apparecchio televisivo tipo questo). Libri che non saranno successi commerciali, non lo erano stati nemmeno in patria all’epoca, ma che sono fondamentali tasselli per comporre il mosaico della produzione di autori che hanno innegabilmente influenzato la scrittura di tanti che sono venuti dopo di loro. Concludendo, c’è una cosa che mi è piaciuta molto di The Rachel Papers, anzi, Il dossier Rachel – devo abituarmi a chiamarlo così, che è un po’ il tema principale di tutti i libri sull’adolescenza ben riusciti: le riflessioni su quella che gli anglofoni chiamano self-consciousness (e che noi traduttore non sappiamo mai bene come chiamare) tipica di quell’età. Questo è l’inizio dell’ultimo capitolo del libro:

E così ho diciannove anni e di solito non so nemmeno io quello che faccio, i miei pensieri li rubo alle pagine stampate, l’idea del mio aspetto mi viene dagli occhi di altre persone, per strada non supero mai i vecchi rimbambiti e gli sciancati per paura di deprimerli con la mia agilità, amo guardare bambini e animali che giocano, ma non mi dispiacerebbe vedere un mendicante preso a calci o una bambina investita perché tutto fa esperienza, non mi piaccio e derido un mondo che è meno simpatico e meno intelligente di me. Niente di nuovo in tutto questo, vero?

Giudicare se stessi* attraverso gli occhi degli altri è tipico dell’adolescente, ed è tipico di chi fa un mestiere il cui successo dipende fortemente dall’opinione altrui. Un po’ di adolescenza – purtroppo o per fortuna – ci rimane sempre in circolo.  È per questo che il successo di Holden Caulfield e dei suoi epigoni non tramonterà mai.

* Ma cos’è ‘sta storia che a me a scuola hanno insegnato che se stesso va scritto senza accento, assolutamente, e ora mi saltano fuori tutte queste norme redazionali che vogliono sé stesso?

2 pensieri su “Gli occhi degli altri

  1. “* Ma cos’è ‘sta storia che a me a scuola hanno insegnato che se stesso va scritto senza accento, assolutamente, e ora mi saltano fuori tutte queste norme redazionali che vogliono sé stesso?” – Sospetterei un’invenzione dei grammatici, prontamente recepita dagli insegnanti, i quali sembrano sempre in cerca di nuove regole, possibilmente inutili, amando soprattutto quelle che contribuiscono a rendere confusa la situazione.

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    • http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/accentazione-pronome-stesso
      «Altri considerano invece opportuno indicare sempre l’accento del pronome tonico riflessivo, scrivendo pertanto sé stesso, sé stessa, sé stessi ecc.
      Luca Serianni (Grammatica italiana – Italiano comune e lingua letteraria, Torino, Utet, 1991o’, p. 57) ritiene, ad esempio, «Senza reale utilità la regola di non accentare sé quando sia seguito da stesso o medesimo, giacché in questo caso non potrebbe confondersi con la congiunzione: è preferibile non introdurre inutili eccezioni e scrivere sé stesso, sé medesimo. Va osservato, tuttavia, che la grafia se stesso è attualmente preponderante […]». In proposito, infine, il DOP – Dizionario d’ortografia e di pronunzia redatto da Bruno Migliorini, Carlo Tagliavini e Piero Fiorelli (Torino, ERI, 1981) osserva (s.v.): «frequenti ma non giustificate le varianti grafiche se stesso, se medesimo, invece di sé stesso, sé medesimo».»

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