Moviti femmu

96ebc6285cebb92f77a0ce089218edf9Lo sappiamo ormai da un pezzo che nelle opere di narrativa gli anglofoni si muovono più di noi. Se ne parla qui e ne parliamo spesso noi traduttori, quando incontriamo l’ennesima persona che moves uneasily in the chair, con i nostri colleghi, familiari e psichiatri. Nei corsi non si fa che ripetere che in una “buona” traduzione molti di questi gesti devono sparire e far posto alle corrispettive emozioni, sensazioni, pensieri, opere e omissioni che vogliono mostrare senza dirleNe parlava pochi mesi fa Violetta Bellocchio su Nuovi Argomenti, in un articolo di cui condividevo lo spirito generale, ma non sempre la terminologia usata (non mi è chiaro cosa sia il doppiese e in cosa si differenzi dal doppiaggese e dal traduttese) o gli esempi fatti (“che stai dicendo?” non è un calco dall’inglese, ma al massimo un regionalismo meridionale che ha tutto il diritto di comparire in un libro scritto da un autore campano, per dire). L’articolo di Violetta Bellocchio è comunque uno spunto di discussione sul tema dell’influenza delle traduzioni sulla scrittura letteraria italiana. Sarebbe interessante fare uno studio approfondito in materia, vedere quanto e quando la gente ha cominciato a stringersi nelle spalle e a scuotere la testa nella narrativa italiana.

Non mi piace bollare come calchi e sciatterie tout court certe scelte traduttive, e secondo me ci sono anche dei calchi necessari (ne ho parlato già qui e qui, perdonate l’autocitazione). Ma è bene parlarne nei corsi di traduzione e di scrittura, è bene che ci sia la consapevolezza di cosa si sta facendo quando si scrive la frase: John attraversò la stanza. Perché noi, in italiano, le stanze le attraversiamo molto meno, è bene saperlo. Cosa c’è dietro John che attraversa la stanza in italiano? Una scelta cosciente di introdurre una certa micromodalità narrativa anche in italiano? Un deliberato desiderio di straniamento che si manifesta anche nei più piccoli elementi descrittivi? O pura inconsapevolezza?

Leggete questo brano, e ditemi che pensieri vi suscita, come traduttori, come scrittori e come lettori deboli o forti che siate:

La donna si fece largo tra le file di scaffali della biblioteca e raggiunse l’uomo seduto nella sua postazione di lettura. Ferma accanto a lui, allungò una mano e gli disse con un sussurro, chinandosi leggermente: “Scusa se ti disturbo, ma dopo quello che è successo volevo sapere se era tutto a posto”. Lui si appoggiò allo schienale, la guardò per un secondo e poi distolse lo sguardo. Fissò un punto alle spalle di lei, oltre la finestra, verso il verde che si stagliava all’orizzonte. Fece una pausa e poi disse: “Sì, sto bene, ero solo un po’ stanco, tutto qui”. Lei non disse niente e si limitò a sorridergli, e poi tornò al suo posto a sedere, passando davanti alle file di libri di narrativa russa e oltre la sezione dei dizionari e dei volumi antichi.

Il brano qui sopra è inventato da me, ma è tutto basato su una serie di microgesti narrativi comunissimi (forse troppo, ma è una mia opinione) nella lingua inglese. (E i traduttori riconosceranno anche altri calchi che non si riferiscono ai gesti). Essendo così comuni, a un lettore anglofono risultano più trasparenti che a un lettore italiano. Probabilmente però, dal momento che leggiamo tanta narrativa tradotta dall’inglese, stanno diventando trasparenti anche per noi. E a mio modesto parere non è sempre un bene. Sono convinta che la battaglia per un italiano migliore, soprattutto se si parla di scrittura e di letteratura, non vada fatta tanto a un livello lessicale, ma sintattico e di microcontenuti narrativi (espressione inventata da me in questo istante con cui intendo descrivere la gente che frown in inglese quando in italiano potrebbe semplicemente essere perplessa).

Se il brano qui sopra ci sembra normale, accettabile, in una traduzione o (peggio ancora, per me) in un testo scritto direttamente in italiano, qualche domandina sull’evoluzione (o involuzione) della lingua narrativa italiana forse dobbiamo farcela. Non per forza per condannare, censurare e irridere l’influenza della struttura della lingua e del modo di narrare inglesi sull’italiano, ma per averne una maggiore consapevolezza.
A mio avviso, ma è solo un mio parere, una delle maggiori sfide per noi traduttori dall’inglese è quella di sforzarci quando lavoriamo con frasi descrittive – e la narrativa inglese degli ultimi 30 anni ne è piena, direi satura ormai – sta nello sciogliere se non tutti questi stilemi di cui sopra (e non sono mica finiti), almeno una buona metà, cercando di rendere meno legnosa la descrizione anche in italiano. Spesso i traduttori dicono – e giustamente – il mio mestiere non è quello di riscrivere o di mettere una pezza se l’autore non sa scrivere. Ed è sacrosanto. Ma per quanto certi stilemi ci facciano innervosire, non sono sempre segno di cattiva scrittura, ma solo testimonianza del fatto che gli anglofoni si muovono di più, noi italiani ci muoviamo un po’ più fermi.*

* “Moviti femmu” è un’espressione siciliana (non so se diffusa in tutta l’Isola) che significa semplicemente “stai fermo”. Quando il mio compagno, che è catanese, me ne ha rivelato l’esistenza, ho avuto un’epifania e ho pensato che dovrebbe essere il motto dei traduttori EN>IT: “memento moviti femmu semper”.

2 pensieri su “Moviti femmu

Lascia un commento