E levat’ a pistuldà

Salvatore_Il_nome_della_rosaMia madre mi ha raccontato spesso questa storia*: quando lei era ragazza, a Spigno Saturnia, un paesino in provincia di Latina al confine con la Ciociaria, il paese dove è nata lei e dove sono nati i suoi genitori e i suoi nonni, ogni tanto tornavano gli spignesi emigrati in America, chi per visitare la famiglia, chi per stabilirsi di nuovo in Italia, perché avevano fatto i soldi, o perché non li avevano fatti. E si portavano dietro un sacco di parole ed espressioni nuove. Tra le tante ricordo queste: baiassicuglio (da bicycle), ghella (da girl o più probabilmente gal), guddellotta (da good luck), sciacchenze (da shake hands), naisse (da nice), cioccia (da church). Non credo che queste parole siano sopravvissute nel dialetto spignese moderno, forse sopravvivono solo nei ricordi di mia madre e di poche altre persone anziane, ma c’è stato un periodo in cui a Spigno Saturnia sono state usate da chi veniva dall’America e da chi invece non era mai andato più a ovest di Gaeta. Chissà se qualche compaesano purista ha mai ripreso l’americagnese di chi diceva “m’aggio fatto la ghella” ricordandogli che esisteva la parola italiana “fidanzata” o al massimo la parola spignese “vagliòna”. Ma sospetto che ghella e fidanzata non fossero la stessa cosa, almeno non lo erano per me. La ghella me la immaginavo un po’ come Myrna Loy. E non erano la stessa cosa la chiesa e la cioccia, che fondamentalmente era il luogo di culto di chi era partito per l’America cattolico e ne era tornato protestante. La mia preferita in assoluto è “fare sciacchenze” ho sempre trovato geniale la suffizzazione, è un’italianizzazione perfetta, un camuffamento pienamente riuscito.

Senz’altro ogni paese e ogni città d’Italia ha da raccontare simili storie di commistioni linguistiche tra il dialetto degli emigranti e l’inglese mai davvero imparato come si deve o imparato meglio dell’italiano che già conoscevano poco in partenza.
Sono cose che ci fanno tenerezza, ci fanno sorridere, fanno vibrare quelle corde neorealiste, quella valigia di cartone che ogni italiano ha nel DNA e di cui, pur volendo, non riuscirà a liberarsi mai del tutto.
Non ci fanno la stessa tenerezza quelli che dicono briffare e mission, non ci fanno la stessa simpatia il Jobs Act e management pronunciato con l’accento sulla a sbagliata, non rinveniamo tracce di neorealismo sciuscià in make-up artist e wedding planner. Il tuvuofalamericanismo di chi usa queste espressioni ci risulta più falso, più subdolo, più modaiolo, più snob, più stronzo, diciamolo, di quello di Nando Moriconi o dei compaesani di mia madre.
Ma perché? Chiadiamocelo: perché? Perché ci puzza di latinorum? Perché chi dice briffare di solito ha una laurea e ha i soldi mentre Alberto Sordi che si mangia la mostaaaarrrrda sa di ignoranza crassa ma anche di genuinità dei bei tempi andati? Perché percepiamo la nostra lingua e la nostra cultura come debole e la vogliamo difendere da un’influenza che percepiamo come un’invasione, mentre l’inglese che si percepisce forte prende, ingloba e fa sue (come ha sempre fatto) una quantità enorme di parole straniere, storpiandole, inglesizzandole senza sentirsi minimamente in colpa o minacciato perché tanto sa di essere forte?

Insomma, diciamolo, sono almeno 70 anni che esiste una forma di itanglese e che in Italia prendiamo in giro o facciamo le prediche a quelli che vogliono fare gli americani. Ma rispondiamo seriamente, cercando di tenere a bada il neorealismo che è in ognuno di noi, nonché l’istinto pavloviano che ci fa rispondere con “abbiamo una cultura e una lingua che tutto il mondo ama e ci invidia” ogni volta che sentiamo una vaga puzza di “esterofilia”: perché quelli che volevano fa’ gli americani ieri ci sembrano più simpatici, belli e genuini di quelli che vogliono fa’ gli americani oggi?**

* Nella nostra famiglia gli aneddoti si raccontano e si riraccontano fino all’inverosimile.
** Con questo non voglio criticare la campagna #dilloinitaliano, non entro proprio nel merito, anche se tangenzialmente ci tengo a dire che non credo che certe cose – anzi, diciamo che non credo proprio che nessun comportamento considerato giusto e virtuoso possa passare per campagne prescrittive (e qui faccio autocritica di categoria: nemmeno la citazione del nome del traduttore può essere imposta in questo modo; nel senso, imponetela pure e fate tutte le campagne e le petizioni che volete, ma a un certo punto dovrete arrendervi all’evidenza: tutto sommato non funzionano). Credo solo che riflettere su questi temi e sul fastidio istintivo davanti a certe cose alla fine è un’occasione per capire meglio i meccanismi di certi nostri riflessi sclerotizzati, più che per correggere quelle che consideriamo abitudini sbagliate altrui.

12 pensieri su “E levat’ a pistuldà

  1. Concordo, è utile la riflessione: io d’istinto tenderei a prendermela con chi usa troppo inglese*, ma mi rendo conto che è un punto di vista esacerbato dall’uso ideologico che talvolta vedo e sento fare dell’inglese come newspeak che dà una bella passata di smalto a idee trite o poco spendibili se espresse in italiano: me la prendo per i casi specifici e poi inconsapevolmente generalizzo. Poi in realtà mi rendo conto che io stesso nella quotidianità chiamo un sacco di cose con il loro nome inglese o uso calchi anglofoni spudorati; in fin dei conti, come sappiamo, è tutta questione di contesto.

    *con chi usa troppo inglese a cazzo, pardon my English

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      • “troppo a cazzo”, non “inglese a cazzo” 🙂

        io sono il primo che spesso e volentieri quando infila parole inglesi nell’italiano ne italianizza la pronuncia

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  2. Credo che i nuovi barbari diano fastidio – a chi? non mi pare poi a così tanti – perché i loro prestiti hanno per obiettivo quello di darsi importanza e molto spesso nascondere pochezza intellettuale dietro parole che vorrebbero richiamare una competenza o, peggio ancora, una scienza.

    Mia nonna buon’anima diceva che gli Americani chiamavano la gomma da masticare “ciùlinga”. Lo aveva sentito, diceva, dai soldati americani che erano sbarcati in Sardegna dopo l’armistizio di Cassibile. Una traccia di quel fatto è rimasta. Qui nemmeno un ragazzino dice chewing gum: il chewing gum si chiama cingomma.

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    • Continuo a trovare comunque infruttuose e controproducenti le campagne prescrittive e normative in campi come questo. Lungi da me poi il voler difendere briffare o performance e mission usati a cazzo di cane. Mi sembrano orrendi, ma per me chi li usa può continuare a farlo, se crede, se la cosa lo fa stare bene, sentire parte di un gruppo o che so io. Credo che la lingua italiana sia molto più forte di quello che crediamo, non la vedo per nulla minacciata da queste cose qui.

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      • Le campagne prescrittive sono più che altro campagne espressive: funzionano esattamente come funziona l’uso di briffare e performance, cioè fanno sentire parte di un gruppo. Il gruppo di quelli che non usano briffare. E gli altri continueranno a usare briffare felici e contenti.

        Dell’utilità delle campagne prescrittive in tema di linguaggio rimane infine l’esempio ineffabile di quella fascista. Nessuno usa la parola Arzente, eppure era anche bella. Peccato che della gente con il fez in testa e il pugnal fra i denti l’abbia resa odiosa.

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      • Ecco, bravo, mi hai fatto riflettere su una cosa, forse è proprio il pensiero di certe scemenze fasciste contro le parole che mi fa indietreggiare davanti a certe campagne che magari nei contenuti approverei pure.

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  3. Innanzitutto complimenti per il bel post, mi ha riportato alla mente tanti ricordi. Ovviamente anche in Molise (come in tutto il sud) siamo pieni di esempi del genere.

    Posso provare a dare una risposta alla tua domanda.
    Personalmente ho sempre visto con una certa benevolenza, quasi con simpatia, quelle forme di storpiatura tipiche degli italoamericani. Sono errori fatti da gente semplice, poco istruita o semianalfabeta, con una vita di sacrifici alle spalle. Il loro inglese mancato è il segno del tentativo – goffo – di adattarsi alla lingua ed alle regole di un paese spesso ostile.

    Altra cosa sono le bestialità contemporanee. È il caso di Very bello, ma anche di tante altre porcherie. Chi utilizza queste parole vorrebbe (probabilmente) darsi un tono, sembrare giovane ed internazionale. Il risultato è invece quello di apparire patetici, provinciali e anche un po’ stupidi.

    [Ci tengo a precisare che non appartengo in nessun modo al gruppo di quelli che dicono «abbiamo una cultura e una lingua che tutto il mondo ama e ci invidia».]

    Scusami per lo sproloquio.
    Ciao!

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    • Grazie Aldievel.
      Continuo a pensare che l’italiano Very Bello, e tutto il suo mondo cheap e wanna-be (ah ah: sottilissima ironia che non so se si nota) non minaccerà mai niente e nessuno. Perché fondamentalmente fa ridere. Se lo combattiamo a colpi di Crusca forse gli diamo più spessore e credito di quello che realmente ha. Ma forse parlo così solo perché non frequento determinati ambienti socio-professionali.

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      • Alla parola cheap mi viene in mente solo Nanni Moretti furioso. Non credo sia quella la sottilissima ironia di cui parli.

        Sicuramente l’italiano non è minacciato da queste cose e combattere a colpi di Crusca è soltanto una perdita di tempo. Hai pienamente ragione.

        A volte però il fastidio è incontrollabile. In genere sono sempre comprensivo, non sopporto chi corregge gli altri e non sto a sottolineare errori di battitura e cavolate. Ma quando sento cose del genere (specialmente nel parlato) non riesco a nascondere il mio fastidio.
        Ciao!

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  4. Questo dei prestiti e degli ibridi è un discorso diverso, anch’io li considero un arricchimento. Quel che però invocava la campagna sull’italiano è diverso e secondo me sacrosanto. Prescrivere ai singoli è assurdo, ma si può chiedere che i media e il governo si esprimano in modo coerente con il fatto che in teoria saremmo una democrazia. Quindi quando arriva una nuova cosa, se per esempio tutti si precipitano immediatamente a chiamarla Kiuì o quantitative easing, anche se un nome in italiano in realtà ce l’avrebbe già (quello che già usano gli accademici italiani), la si rende più oscura complicata di quello che è già (e tecnicamente è un concetto economico intrinsecamente difficile). Se invece almeno al TG e nei documenti pubblici la chiamiamo allentamento o alleggerimento quantitativo, la rendiamo una parola più universalmente maneggiabile, eliminiamo problemi di pronuncia, che discriminano, e soprattutto forniamo un elemento di comprensione di cosa possa essere, a tutti, anche al 70% di italiani che non sanno l’inglese, anche a un anziano che sa solo l’italiano. Questo è solo un esempio, non si tratta di bandire completamente gli apporti stranieri ma valutarne l’opportunità soprattutto nel discorso pubblico che ci permette di comprendere i problemi, decidere chi votare, ecc. Nei paesi anglosassoni per questo esiste la campagna per il “plain English”. La democrazia richiede partecipazione e chiarezza, questa chiarezza dovrebbe riguardare anche l’italiano burocratico fra l’altro. Poi i singoli usino la lingua che vogliono.

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    • Sono d’accordissimo, l’italiano della burocrazia e della pubblica amministrazione deve essere chiaro. Non è solo colpa dei termini inglesi se non lo è. Ma comunque in un contesto come questo – ma solo in un contesto come questo – capisco la richiesta di un intervento dall’alto. Ma contro l’inutile complicazione e l’uso della lingua come un’arma. Non semplicemente e semplicisticamente contro l’inglese ridondante.

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