Traduzione nella traduzione

Immagine presa da http://www.houstonpress.com

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In “Toda Luna, Todo Año”, uno dei racconti (bellissimi) di Lucia Berlin che sto traducendo, la protagonista sta a sua volta traducendo dei versi dallo spagnolo all’inglese.
Il racconto comincia così:

Toda luna, todo año
Todo día, todo viento
Camina, y pasa también.
También, toda sangre llega
Al lugar de su quietud.
(Books of Chilam-Balam)

Automatically, Eloise Gore began to translate the poem in her head. Each moon, each year. No. Every moon, every year gets the fricative sound. Camina? Walks. Shame that doesn’t work in English. Clocks walk in Spanish, don’t run. Goes along, and passes away. 

Il personaggio riflette su alcune differenze tra le due lingue con cui sta lavorando: lo spagnolo, che è lingua straniera sia per i lettori del testo originale sia per coloro che leggeranno la mia traduzione; e poi l’inglese, che per i lettori del testo originale non è solo la lingua in cui Eloise sta traducendo i versi, ma anche la lingua tramite la quale loro fruiscono della narrazione.

Arrivata davanti a questo nodo, la domanda che mi sono posta è stata: quando Eloise traduce dallo spagnolo verso l’inglese, io devo considerare la lingua inglese come l’ho considerata in tutto il resto del racconto, cioè un veicolo di significato e quindi tradurla e adattarla in italiano perché il patto traduttivo è che io usi l’italiano proprio come l’autrice usa l’inglese? O devo considerarla al di fuori del terreno delle cose che è mia competenza trasformare, non essendo, in questo particolare contesto, un semplice significante, ma il significato stesso, non un veicolo, ma l’oggetto stesso del racconto?

Qualche giorno fa ho sottoposto questi dubbi ai miei contatti Facebook. Alcuni sostenevano che se i riferimenti all’inglese erano limitati potevo anche lasciarli in originale, magari con una breve spiegazione in italiano accanto, ma la maggior parte propendeva per tradurre e adattare la resa in inglese dell’originale spagnolo con una resa in italiano, sostituire le riflessioni sul suono fricativo o sul fatto che “walks” non funzioni in inglese con qualcos’altro, come se la protagonista stesse davvero traducendo la poesia in italiano. C’è stato anche chi mi ha consigliato di cambiare il testo di partenza, o di trovare un’altra porzione di quella poesia che potesse offrire maggiori spunti utili a un adattamento in italiano rispetto al pezzo riportato dalla Berlin che ha affettivamente notevoli punti di contatto con l’italiano e che pertanto non giustificherebbe tutti i dubbi e le elucubrazioni della traduttrice del racconto.

Io ero e sono per lasciare il riferimento all’inglese anche nel mio testo tradotto, ma è stato interessante scoprire le motivazioni di chi mi consigliava invece di adattare:

perché nell’artificio della traduzione la lingua da cui traduco e l’italiano devono coincidere in tutto e per tutto e ogni differenza va annullata; la lingua di partenza deve scomparire; un’improvvisa irruzione in scena dell’inglese inficerebbe il patto tra lettore e traduttore interrompendo la sospensione dell’incredulità.
Insomma, lasciare dei pezzi in lingua originale farebbe un po’ l’effetto di un blooper.

Uno dei primissimi libri che ho letto all’università per l’esame di Inglese 1 è stato The Old Curiosity Shop di Charles Dickens. Nonostante gli anni passati, e nonostante da allora io non abbia più riletto il romanzo, mi è rimasta molto impressa questa scena: Nell, la bambina protagonista, e suo nonno, vedono in un cimitero dei burattinai che riparano i loro pupazzi. Il nonno chiede perché li riparino proprio nel cimitero, e i burattinai rispondono che lo fanno per non farsi vedere dal pubblico, per non distruggere l’illusione.
Chi è che davvero ci rimette, alla fine? La piccola Nell e suo nonno, che vedono, loro malgrado, il dietro le quinte di uno spettacolo, o il resto del pubblico, trattato con riguardo, ma anche, forse, con paternalismo? Probabilmente entrambi. A mio avviso ci rimette un po’ di più il pubblico a cui viene negato di poter vedere cosa c’è dietro la finzione e che viene trattato come un bambino a cui non si deve far capire che Babbo Natale non esiste.

Da tempi lontanissimi ogni linguaggio artistico si è riconosciuto il diritto allo sperimentalismo e alla metanarrazione: i pittori che inseriscono sé stessi nei quadri, il teatro nel teatro, il cinema nel cinema, i metaromanzi, o anche solo Ivano Fossati che scrive “e questo schifo di canzone non può mica finire qui”. E invece la traduzione su questo fronte si è autolimitata tantissimo, forse per una concezione di sé stessa come ancillare rispetto al testo di partenza.
Auspicando un maggiore sperimentalismo e delle occasionali e ponderate incursioni della lingua di partenza nelle traduzioni non immagino niente di eccessivamente avanguardistico o rivoluzionario. Dico solo che se ogni tanto lasciamo intravedere un meccanismo dietro la finzione – vuoi sotto forma di nota del traduttore, o di una fugace comparsa in scena della lingua dalla quale stiamo traducendo, che disorienta per un attimo il pubblico come un attore che guarda in camera – non stiamo per forza alzando le mani e dichiarando pubblicamente che non sappiamo come cavolo tradurre quel pezzo e quindi ve lo spieghiamo in nota oppure ve lo lasciamo in originale dopodiché arrivederci e grazie. E non stiamo per forza distruggendo magie, interrompendo emozioni e uccidendo Babbi Natali.

Ci sono tipologie di testi che più di altre scoraggiano una dimensione anche solo vagamente metatraduttiva (penso soprattutto ai libri per bambini e per ragazzi). Ma in generale ogni testo è una storia a sé e non credo che sia sempre consigliabile nascondere ogni traccia della lingua di partenza come se si trattasse della zia pazza da relegare in soffitta perché sennò facciamo brutta figura con i visitatori nel salottino buono che sono venuti a vedere come traduciamo bene.

Alla fine non so come “Toda Luna, Todo Año” andrà in stampa. A chi rivedrà la traduzione ho proposto due possibili vie, quella dell’adattamento e quella dello straniamento. Mi interessa confrontarmi col revisore su questo punto e sono aperta a entrambe le possibilità traduttive, pur preferendo, come ho già detto, la seconda.
Non è la prima volta che mi trovo ad affrontare simili problemi traduttivi. Tutti i libri di Ali Smith che ho tradotto sono pieni di momenti in cui la lingua inglese da significante si fa significato e tradurla significa anche trasformare parte del racconto e della trama. In questi casi ho adattato la maggior parte delle volte, anche se ogni tanto ho inserito qualche nota o lasciato qualcosa in inglese. Chiedo scusa a eventuali lettori a cui posso aver rovinato la sospensione dell’incredulità, ma sono state scelte con una loro coerenza interna e che probabilmente rifarei. In Errori necessari di Caleb Crain, che ho tradotto l’anno scorso, il protagonista è un americano che insegna inglese a Praga: spesso vengono descritti momenti delle sue lezioni in cui i personaggi analizzano e riflettono su caratteristiche grammaticali e fonetiche della lingua inglese. Anche qui ho lasciato intravedere un po’ d’inglese: non me la sono sentita di fingere, in pratica, che si trattasse di lezioni d’italiano.

Affrontando questo genere di problemi di traduzione non esistono, a mio avviso, regole o ricette valide universalmente. Bisogna stabilire di volta in volta quale direzione prendere, quale sarà la natura del residuo comunicativo, cosa cioè, siamo disposti a perdere. Forse sarebbe più pertinente citare “One Art” di Elizabeth Bishop, che con il suo “lose something every day” è in effetti un po’ il manifesto del traduttore. Ma se ci pensate, queste parole di Jovanotti – “mi fido di te, cosa sei disposto a perdere?” – sono un po’ quelle che ogni traduttore dovrebbe rivolgere al pubblico per cui sta lavorando: “caro lettore, non ti tratto come il famoso bambino di undici anni nemmeno troppo intelligente. Anzi mi fido della tua maturità e il mio compito principale di traduttore non è necessariamente farti credere a tutti i costi che il libro che hai in mano sia stato scritto originariamente nella tua lingua. Tu sai come me che in traduzione si perde sempre qualcosa, tutto sta nel chiederci cosa possiamo permetterci di perdere e cosa vogliamo salvare”.

Il patto fra traduttore e lettore non può riguardare solo la salvaguardia della sospensione dell’incredulità a ogni costo. Il rispetto per i lettori passa anche attraverso la fiducia nella loro consapevolezza riguardo al fatto che stanno usufruendo di un’opera in traduzione, che come tale può finire per usare qualche artificio in più rispetto al corrispettivo in lingua originale.
I tentativi di nascondere qualunque traccia della lingua di partenza o i nostri dietro le quinte traduttivi possono a volte interferire in maniera ancora più goffa con la sospensione dell’incredulità, come quando nei film doppiati un personaggio chiede a un altro: “Parli la mia lingua?” Chi di noi sentendo questa frase non ha pensato almeno una volta: vabbè, dai, potevano anche fargli dire “Parli inglese?”, non mi sarei scandalizzato.

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