Il mio nome è Nessuno

thumb.phpTempo fa, con Chiara Marmugi, avevamo immaginato una serie di pubblicità progresso per lanciare la campagna “Citiamo i traduttori”. In una di queste una persona entrava in libreria e prendeva un libro in traduzione. Il/la libraio/a o cassiere/a cominciava a parlare con il cliente del libro e a fargli domande sull’autore, sulla casa editrice, all’inizio con l’intento apparente di fare conversazione. Arrivati al nome del traduttore il cliente non sapeva rispondere: veniva buttato fuori dal negozio. Non so se uno spot del genere avrebbe potuto mai avere successo. (Comunque il ruolo del libraio io l’avrei proposto a John Cleese.)

In questi anni, noi traduttori, singolarmente e in associazione, soprattutto con la sezione traduttori dell’SNS prima e con Strade poi, abbiamo provato a sensibilizzare editori, giornalisti, blogger e lettori ricordando loro che quando si parla di un libro, soprattutto quando si recensisce o se ne riportano stralci, non solo è buona educazione, ma è proprio obbligo di legge menzionare il nome dell’autore, naturalmente, e dell’eventuale traduttore. Ne ho già parlato due anni fa in questo articolo su Strade Magazine (chiedo scusa per l’autocitazione).
Nel corso degli ultimi dieci-quindici anni le cose sono cambiate, abbiamo ottenuto degli innegabili risultati. Ma sempre a fatica, e ogni volta con una vaga sensazione di amaro in bocca. Perché? Sarò franca: non è solo colpa degli editori/giornalisti/blogger/lettori. Credo che sia un po’ anche colpa di noi traduttori che spesso sbagliamo strategia comunicativa. È successo a molti di noi di scrivere a un giornalista, magari nei commenti a un articolo in cui riportava stralci interi del nostro lavoro di traduzione, per fargli presente che si era dimenticato di citare il nostro nome. La schema della pantomima che ne segue è quasi sempre questo: 1) traduttore che protesta per la mancata citazione del suo nome; 2) colleghi che accorrono per dargli manforte; 3) autore dell’articolo che si dichiara risentito per il tono delle proteste (e che spesso continua a non voler modificare l’articolo aggiungendo il nome del traduttore); 4) altri commentatori che dicono di trovare patetiche le proteste dei traduttori (che anzi, spesso, lavorano con i piedi e meritano l’oblio eterno).

Ora, senza voler giustificare i tanti giornalisti/blogger eccetera che si ostinano a non voler citare il nome del traduttore, mi metto un po’ anche nei loro panni. Credo che sia una reazione normale (e con normale non intendo “matura”, “nobile” o “giusta”, ma solo “alquanto comune e prevedibile”) rispondere a una critica – per quanto giusta – ritirandosi sulla difensiva. A maggior ragione non è facile accettare una critica – giusta, sacrosanta quanto volete – se questa viene mossa con sarcasmo o aggressività. Il problema è solo uno: vogliamo ottenere un risultato o vogliamo far fare una figuraccia al nostro interlocutore?
Sì, è vero che fa rabbia trovare citati brani interi del nostro lavoro, magari accompagnati anche da commenti positivi, senza traccia del nostro nome. Fa rabbia leggere recensioni con tanto di numero di pagine e tipo di rilegatura del libro e di nuovo nessuna traccia del nome del traduttore. Le reazioni rabbiose e sarcastiche ci faranno sentire più in gamba della persona di cui critichiamo le mancanze e ci daranno la sensazione di esserci liberati di un po’ di quel senso di rabbia e frustrazione che proviamo. Ma sono il peggior errore di traduzione che possiamo commettere nella nostra carriera. Perché alla fine, nella mente del criticato e di molti lettori non addetti ai lavori (e forse anche nella mente di qualche addetto ai lavori) tutto questo si traduce in: chi mi sta muovendo queste critiche è un patetico frustrato. In realtà chi mi sta muovendo queste critiche sta solo a rosica’. Questa, per molti, è la traduzione del nostro messaggio di protesta: siamone consapevoli.

È vero che ritenere invidiosi chi ci critica e usare questa motivazione come scusa per non ammettere e non correggere mai i nostri sbagli è un po’ uno sport nazionale. Ma non è questo il punto. Il punto è che alla fine, sistematicamente, non otteniamo quello per cui ci battiamo. Dobbiamo ammettere che saremo anche ottimi traduttori, ma sappiamo forse un po’ poco di strategie comunicative. E quindi, se davvero si ha l’ambizione di cambiare le cose, è necessario approfondire la materia, e per campagne più serie è il caso, forse, di chiedere aiuto a esperti del settore.
Nel frattempo, però, se dobbiamo reagire in fretta e scrivere qualcosa nella sezione commenti di un giornale, di un blog o di una pagina Facebook, contiamo fino a 100, chiudiamo a chiave in soffitta il sarcasmo (che è un po’ il carboidrato dell’autostima) e ricordiamo che la gentilezza e il garbo, soprattutto in queste situazioni in cui il criticato, il criticante (e la categoria al nome della quale quest’ultimo parla) sono esposti agli occhi e al giudizio di altre persone, possono fare miracoli.

6 pensieri su “Il mio nome è Nessuno

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  3. Proprio oggi su Repubblica compare un articolo di Dondelillo, che si sa, si esprime e scrive correntemente in italiano. Si tratterà di una traduzione redazionale, ma non credo, considerata l’importanza dell’autore – non è citato alcun nome del traduttore/traduttrice. Va bene la dolcezza ed evitare il sarcasmo, ma un pizzico di ironia credo non guasti, se lieve.

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  4. L’idea dello spot è bellissima… io propongo di strapppare Owen Wilson all’aperitivo analcolico, assegnandogli il ruolo del libraio:).
    Molto interessante l’articolo su Strade. Concordo con te, Federica: la nostra maggior visibilità stimola anche a lavorare sempre al meglio e fa bene ai libri!

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