L’italiano regionale nelle traduzioni

Canciegl - Castellone - Formia

Canciegl – Castellone – Formia

Questi pensieri nascono da una discussione su una mailing list di traduttori editoriali. Si parlava di come rendere in italiano il concetto dell’astinenza dalle droghe e se l’espressione “stare a rota” potesse essere percepita dai lettori come troppo romana. Ma questi pensieri si portano dietro anche tutta una serie riflessioni che vado facendo da almeno undici anni, da quando, cioè, ho cominciato a tradurre libri.
Dovete sapere che un cruccio costante, un riflesso automatico di traduttori e revisori è quello di evitare il più possibile espressioni regionali o che possano risultare oscure a una fetta di lettori. Non dico che è un dogma, esistono situazioni e tipologie di testi in cui la cosa è permessa, ma sono pochi; è un quasi dogma che a mio avviso può e forse deve essere messo in discussione. La revisora* della mia prima traduzione ogni tanto mi segnalava delle parole o delle espressioni che non aveva mai sentito o le risultavano sbagliate. Non mi vergogno a dire (oddio, un po’ me ne vergogno, in realtà) che ho scoperto solo allora che l’avverbio fuori deve essere (quasi) sempre seguito dalla preposizione da: per me era era corretta un’espressione come “fuori l’albergo”, ma in realtà la maggior parte delle persone che parlano l’italiano correttamente direbbero “fuori dall’albergo” o meglio “davanti all’albergo”. Tornando alla revisione della mia prima traduzione: ho scoperto allora anche che l’espressione* “buttarsi a indovinare” non è conosciuta in nessun’altra zona d’Italia. In italiano standard si dice “tirare a indovinare”.
Dopo la mia prima revisione, ho imparato che devo stare molto all’erta: quando ho dei dubbi chiedo ad amici di altre zone d’Italia se una data espressione, parola, costruzione sintattica gli suona italiana o gli sembra troppo marcata regionalmente. E ancora oggi i revisori ogni tanto mi segnalano cose tipo i possessivi dopo il sostantivo: “un amico mio” non può sopravvivere e diventa immancabilmente “un mio amico”, ancora oggi mi cambiano qualche “stare” con “essere”.
Ecco la geo-storia del mio italiano: io sono di Formia, dove si parlano un dialetto e un italiano che sono a metà strada tra i dialetti e l’italiano della Campania del nord e quelli della Ciociaria. Ho vissuto in una famiglia dove si parlava un dialetto del ceppo ciociaro – lo spignese – e con vicini di casa che parlavano il formiano***. Ho passato un’infanzia ad andare con la bicicletta “fuori il balcone” e a 34 anni ho scoperto che i miei pomeriggi primaverili di bambina formiana erano grammaticalmente sbagliati. Ho studiato a Napoli. Mi sono poi trasferita a Dublino, dove ho vissuto per sei anni e ho avuto contatti assidui con persone di tutte le parti d’Italia (soprattutto toscane e siciliane). Poi sono stata un anno a Torino  e ora da quasi dieci anni vivo a Roma.
Dopo aver viaggiato, studiato, conosciuto, il mio italiano parlato di oggi è forse meno marcato regionalmente di un tempo. Ma è certo comunque che è quello di una persona dell’Italia centro-meridionale della costa occidentale, e questo trasparirà sempre un po’ nelle mie traduzioni. Il nostro italiano regionale trasparirà sempre nelle traduzioni e questa cosa non deve essere un problema, ma una risorsa. Noi in Italia traduciamo tanto, tanta narrativa, tanti film, tante serie televisive: sono tutte tipologie di testi in cui la lingua parlata spesso ha un ruolo fondamentale. E noi da decenni affrontiamo la traduzione di questi testi stando attenti a non inserire parole o costruzioni che non siano condivise da un’ampia fetta di parlanti italiani.
Dicevo che ci sono eccezioni: nei libri o nei film – soprattutto nei film – destinati ai bambini o ai ragazzi possono esserci degli adattamenti – spesso per ricreare un effetto comico – che portano il traduttore o l’adattatore a scegliere di far parlare un personaggio con un accento regionale italiano. Tutti, poi, ricordiamo le strane soluzioni per telefilm come “La tata” (che parlava con l’accento ciociaro) e “Roxanne” (che parlava con l’accento napoletano) che appartengono a un’idea doppiaggio anni ’80-’90 che ormai risulta preistorica e fallimentare. Li considero anch’io esperimenti fallimentari e quando dico che però il dogma del “niente italiano regionale” va discusso e sfidato, penso ad altro. Penso che il rischio è che i testi tradotti – e in Italia ne circolano tanti, tra libri e audiovisivi – rischiano di proporre e quindi di diffondere un modello di italiano ipercorretto che potrebbe finire per impoverire la lingua italiana.
Noi partiamo spesso, soprattutto se traduciamo dall’inglese, da testi “sporchi”, ibridi, pieni di parole che non tutti i parlanti di quella lingua capiscono, e finiamo per trasformarli in qualcosa di più ordinato, pulito e perfettino. E anche un po’ falso. Falso anche perché l’italiano regionale oggi non è più a a compartimenti stagni. Se potessimo vedere un’immagine satellitare dell’Italia, con una lucina che si accende ogni volta che qualcuno dice minchia, vedremmo accendersi più lucine a Torino che a Palermo. Sempre rimanendo nel turpiloquio, siamo sicuri che mignotta lo usano solo i romani, che ricchione lo usano solo i campani e pirla solo i lombardi? Perché, ogni volta che io chiedo a un mio amico madrelingua inglese cosa significa una determinata parola o frase che sto traducendo e che non capisco e mi sento rispondere “never heard”, io devo invece rendere il tutto con qualcosa che sia familiare a tutti o perlomeno alla maggior parte dei parlanti italofoni? Per arricchire la lingua delle traduzioni, per rischiare di non farla diventare una lingua ingessata e falsa, a mio avviso bisogna introdurre in maniera ponderata anche degli elementi dell’italiano regionale.
L’obiezione spesso è: “non ce lo vedo un personaggio di Londra che dice: sticazzi”. Ma se è per questo un personaggio di Londra non ce lo vedo manco che dice “buongiorno”. Tradurre è un’insieme di convenzioni, è una finzione, è una proposta di riadattamento di un mondo in un’altra lingua ed è un peccato limitare l’uso delle possibilità, delle frecce che abbiamo al nostro arco, escludendo la ricchezza immensa che ci fornisce l’italiano regionale che è più condiviso e ibrido di quanto immaginiamo noi traduttori. E comunque prima o poi, in omaggio ai miei nonni spignesi, io userò la parola vinciticcio per tradurre “sore loser”. Anche se non siete del basso Lazio scommetto che non vi sarà difficile capirne il senso.

* Parola invisa a molti che preferiscono revisore per ambo i sessi.
** Un revisore che si rispetti mi evidenzierebbe in giallo le tre parole che finiscono in ione all’interno di questa frase, chiedendomi di sostituirne almeno una. Un traduttore che si rispetti evita le rime, gli omoteleuti e le allitterazioni come la peste.
*** Mia nonna e mia zia parlavano esclusivamente lo spignese. Ma ricordo l’ammirazione che provavo nei loro confronti quando venivano a trovarle amiche formiane e loro perfettamente bidialettofone, passavano al dialetto formiano con estrema disinvoltura.

17 pensieri su “L’italiano regionale nelle traduzioni

  1. «…per me era era corretta un’espressione come “fuori l’albergo”, ma in realtà la maggior parte delle persone che parlano italiano correttamente direbbero “fuori dall’albergo” o meglio “davanti all’albergo”»… o anche “fuori dell’albergo”, secondo i casi, se è per quello 🙂
    Battute a parte, ricordo bene la difficoltà di convincere i miei primissimi studenti di traduzione (era solo un modulo introduttivo) centro-meridionali che sì, davvero, purtroppo “sotto casa” può andar bene, ma “davanti casa” no. Si persuasero solo davanti (al)l’autorevolezza di un dizionario stampato. Grazie per questo post da una milanese vissuta tre lustri in toscana e ormai quasi altri due nel Lazio che viene costantemente accusata di lombardeggiare, toscaneggiare e… centraleggiare senza autorizzazione.

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  2. Grazie, Federica. Post interessantissimo e argomento cui sono molto legata, essendo vissuta in un ambiente a forte commistione linguistica. Sono nata e vissuta a Udine da una madre della provincia di Taranto e un padre della provincia di Messina (dire pugliese e siciliano è davvero troppo riduttivo), che in casa non parlavano i rispettivi dialetti, ma un italiano in cui quei dialetti riecheggiavano. E ovviamente ho trascorso lunghi periodi con parenti che parlavano l’uno o l’altro dialetto o un italiano ancora più fortemente connotato regionalmente e che ovviamente ho assorbito. Da bambina i miei genitori frequentavano molti amici campani e anche la loro lingua è entrata a fare parte del mio tessuto linguistico. E poi c’erano i miei nonni emigrati negli Stati Uniti, che parlavano un italiano siculo-broccolino. E ovviamente c’è stato il friulano, che ho imparato a comprendere sentendolo parlare da vari conoscenti. Con l’ingresso a scuola ho imparato a conoscere l’italiano “standard” e ho cominciato ad aguzzare le orecchie per carpire gli scarti rispetto a questo italiano delle varie parlate da cui ero circondata. E per cogliere i diversi modi di “dire la stessa cosa” nei diversi italiani dei miei parenti e amici. Chi vive in un ambiente linguistico univoco non si rende neppure conto che certi modi di dire sono marcati e pensa che l’italiano sia quello. Dove abito io ad esempio si sente spesso dire “siediti vicino di me” (!) o “ho una sonna”.

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      • Se non ho capito male, in veneto “sonno” di base è maschile (“sòno”), diventa femminile appunto con funzione accrescitiva. Un tal Giuseppe, uno dei leggendari personaggi di Marostica, paese dei miei parenti, essendo dotato di un fondoschiena ampio veniva chiamato “Bepi Cula” (soprannome passato alla storia perché una volta il tizio si trovava in un bar in non so quale altra città lontana; un compaesano, riconoscendolo, prese a dire “Cula” nascondendosi dietro il giornale, finché Bepi non commentò “Qua ghe xe qualchedun de Maròstega.”) [piccolo excursus di couleur locale 🙂 ]

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  3. Ho commentato anche su Langwich, dove è stato condiviso questo bellissimo post. Dicevo che io su queste espressioni ci ho fatto una tesina della triennale, probabilmente anche più corta di questo post 😉
    Bellissimo imparare i regionalismi. Ho fatto l’università a Forlì e ho avuto relazioni con ragazzi che non provenivano dalla mia regione, quindi non mi è nuovo l’effetto spaesante che provocano i regionalismi. Non è proprio il massimo sentirsi dire “Passami il burazzo” e non capire cosa sta dicendo la tua coinquilina 😀
    Però sono una risorsa e abbiamo già trovato un modo per renderli nazionali, come dicevi nel post. Dato che la lingua non si evolve velocemente, ci vorrà tempo perché altri regionalismi ricevano la fama che meritano 🙂

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  4. Già, ma in italiano come si chiamano i burazzi? Io li chiamo canovacci, ma se poi vado a controllare nel dizionario trovo che canovaccio sarebbe 1. Tela di canapa piuttosto grossa e ruvida per usi di cucina. 2. Tessuto a larghi buchi regolari adatto per speciali ricami (punto in croce). 3. fig. a. Trama scritta di un’opera drammatica,… Ora, lo straccio che uso per asciugare i piatti non è di canapa grossa e ruvida ma di cotone e francamente non ne ho mai avuti in canapa grezza e ruvida.
    Ogni parola che metto sulla carta scatena in me una serie di dubbi e mina la mia autostima. Magari, come suggerisce Federica, alcune “imperfezioni” vanno valorizzate e non demonizzate ma il “never heard” deve essere la risposta di una persona che ignora il termine per una sua mancanza, non per una mia leggerezza professionale.

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    • Io li chiamo stracci, perché mia mamma li chiama cosi. Ma fuori dall’ambito familiare li chiamo strofinacci. Ho sentito anche chiamarli canovacci. Con le bambine uso i due termini a seconda del momento.
      Altro oggetto che a me crea imbarazzo è quello che qui chiamano terrina, e che io ho sempre chiamato coppa. E siccome terrina proprio non riesco a farmelo piacere a volte la chiamo ciotola.

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  5. Burazzo, cencio, straccio, canovaccio: al di là delle differenze, è interessante notare comunanze e assonanze, il valore sommessamente assoluto del suono (-s-s-s) in ogni lingua, che torna a farsi relativo se si guarda a lingue diverse. L’italiano standard è un mare piatto su cui non tira vento, ma la bonaccia, come le lunghe sciroccate, finisce per disorientare.

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  6. Questo entrerà nei miei post preferiti di sempre!
    Io sono nato e cresciuto in Sardegna, dove la netta separazione tra italiano e sardo porta in genere a parlare un italiano molto vicino a quello standard, come ce lo insegnano a scuola… o almeno di questo sono stato convinto per diverso tempo, finché non ho notato la facce storte quando suggerivo di sederci *nel* divano o quando usavo i modi e tempi verbali in maniera alternativa (“adoro la musica! Sto sempre cantando”). Dieci anni tra Torino, New York e Trento hanno creato un magnifico minestrone, che cerco di usare in minime dosi per vivacizzare il testo tradotto.
    (Resta l’annosa questione: come chiamare in un dialogo di narrativa il “chewing gum” senza sembrare sassaresi, torinesi, milanesi o… personaggi di un libro?)

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  7. …non sono traduttrice, lo ammetto…ma insegno italiano in un altro mondo, in cui molto spesso devo ricorrere a regionalismi per “tradurre” espressioni locali che altrimenti in italiano standard suonerebbero senza senso e incomprensibili!!L’altro mondo è il Messico, in cui lo stesso spagnolo non è quello della conquistatrice Spagna, perchè molti termini si rifanno a lingue locali (e quindi anche a origini e costumi differenti da quelli europei).Ho quindi il problema inverso!In una istituzione in cui mi chiedono un italiano standard mi ritrovo spesso (e devo dire con piacere!) a dover utilizzare espressioni dialettali per rispondere alle necessità espressive dei miei alunni!E quando proprio non ce n’è, mi tocca usare giri di parole caleidoscopici o ammettere il fallimento linguistico…A volte mi domando che italiano parleranno i miei studenti ultimato il corso…!

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