Quando la lingua non è trasparente

Fiona Phillips; Oil, 2012, Painting "Raining Cats and Dogs"

Fiona Phillips; Oil, 2012, Painting “Raining Cats and Dogs”

Credo che nessun traduttore avrebbe dubbi su come rendere frasi tipo “they were like chalk and cheese”, “piece of cake” o “break a leg”: in qualsiasi modo, ma non letteralmente. Ma cosa succede quando un modo di dire, un gioco di parole, un riferimento alla lingua di partenza va oltre e non è più un semplice veicolo di significato, ma diventa un’occasione di riflessione sulla lingua stessa? Come ci si comporta quando la lingua da cui stiamo traducendo non è più trasparente, ma diventa essa stessa parte della narrazione, parte della trama, un personaggio?
Istintivamente continuiamo a voler fare in modo che rimanga trasparente, cerchiamo equivalenti nella nostra lingua che reggano il gioco di parole o di situazioni dell’originale.
Immaginiamo che un personaggio, per dire che qualcosa è facile, usi l’espressione “piece of cake”. Ovvio che noi optiamo per “come bere un bicchiere d’acqua” o “è una passeggiata” o qualcosa del genere. Ma cosa succede se il personaggio, dopo aver pronunciato questa frase, mangia un pezzo di torta per sottolineare quanto ha detto? Be’, la maggior parte dei traduttori gli farà bere un bicchiere d’acqua. Vabbè, ma cosa succede se poi, metti, le torte hanno un ruolo fondamentale nel libro, se la metafora della torta diventa così importante nell’economia del libro da non giustificare la trasformazione di ogni “cake” in “bicchiere d’acqua”? Il dilemma è ancora più pressante se non stiamo traducendo un testo scritto, ma un audiovisivo.
Se poi hai tradotto un romanzo, ti sei scervellato per trovare una soluzione che funzionasse in italiano cambiando anche dei particolari, e poi da quel testo ti traggono un film in cui la tua soluzione non ha più senso, allora ti viene voglia di piangere. Ma forte. Ricorderete il caso di Ravenclaw in Harry Potter. Copio e incollo da Wikipedia per pigrizia:

Nella traduzione italiana delle prime edizioni dei primi tre libri, una delle quattro Case di Hogwarts (Ravenclaw) veniva a volte tradotta come “Pecoranera”, ma con l’uscita del quarto volume della serie, i traduttori della Salani hanno deciso di ribattezzarla “Corvonero” per riflettere più da vicino lo stemma della scuola (raffigurante appunto un leone, un serpente, un tasso e un rapace):

« Abbiamo dovuto scegliere di adottare un nome più fedele al testo originale, in quanto lo stemma di Hogwarts sarà presente su altri prodotti oltre al libro. La discrepanza fra l’animale-simbolo presente sullo stemma e il nome della Casa sarebbe stata quindi altrettanto (se non più) evidente rispetto a quella fra i due nomi. »

(Adriano Salani Editore)

Quando cambio una porzione anche infinitesimale di testo per rendere un gioco di parole, per non tradurre alla lettera un modo di dire, per evitare note esplicative a piè di pagina, per non lasciare nel testo traccia alcuna della lingua originale c’è una parte di me che pensa sempre: e se questo fosse un film? Tanto per fare un esempio pratico preso dal libro che sto traducendo ora: la F di “Father” scritta sul fascicolo che Charles Highway dedica a suo padre in italiano diventa la P di “padre” o “papà”. E se dal libro fosse tratto un film, e ci fosse una scena in cui si vede questa F sul fascicolo dedicato al padre? (In realtà da The Rachel’s Papers è stato tratto un film, che in italiano si intitola La ragazze dei sogni, ma non l’ho visto per cui non so se questa F di Father si veda o no.) Si potrebbe fare come si faceva decenni fa quando nei film stranieri si inserivano fotogrammi in italiano se nella versione originale comparivano lettere o bigliettini scritti a mano nella lingua di partenza. Oggi non si usa, questa cosa appare come un’intrusione pesante, paternalistica, giustificabile (e forse molti non sarebbero d’accordo nemmeno in questo caso) solo nei cartoni animati (non succede spesso nemmeno in quelli, ma nei Simpson, per esempio, sì). Traducendo testi scritti invece abbiamo meno remore e ricorriamo allo stratagemma del cambiamento e dell’adattamento molto più spesso.

Ora esagererò un po’ e userò un paradosso da prendere con le molle, ma solo per ingrandire il problema in modo che sia visibile anche a chi non traduce o di solito non riflette più di tanto sui testi tradotti di cui usufruisce: ho l’impressione che quando traduciamo trattiamo la lingua di partenza come qualcosa da nascondere a tutti i costi, come un meccanismo che se intravisto dal lettore rovinerebbe la sua esperienza di lettura. Come il microfono a giraffa che compare per un istante nell’inquadratura, le telecamere riflesse nell’angolo di uno specchio. Una sbavatura imperdonabile. Qualcosa di incongruo. La rivelazione che è solo una finzione.
Non sono una sostenitrice a spada tratta dell’effetto straniante sempre e comunque nella traduzione. I libri di Lawrence Venuti sul tema sono molto interessanti, e ve ne consiglio caldamente la lettura. Ma è anche vero che Venuti viene da un contesto, quello americano, molto più incline all’addomesticamento linguistico, molto meno abituato in genere alla traduzione, forte di una lingua letteraria che basta a se stessa. Nel corso di una lezione durante le Giornate della Traduzione a Urbino, lo scorso anno, Tim Parks osservava che gli autori che scrivono in lingue non veicolari, se aspirano ad avere un certo successo, sono consapevoli che i loro testi verranno tradotti e spesso, anche involontariamente, si censurano da soli espungendo dal testo dettagli che possano risultare troppo legati linguisticamente al contesto di partenza. Questa autocensura di solito invece non scatta in chi scrive in inglese.

A conclusione di queste riflessioni un po’ confuse e slegate e che – come al solito quando si parla di traduzione – mettono sul tavolo molti dubbi e poche certezze, faccio l’esempio di un problema che mi si è presentato in un libro che ho finito di tradurre da poco e che è attualmente in mano al revisore (e quindi ancora passibile di cambiamenti).
Si tratta di Necessary Errors di Caleb Crain che uscirà per 66th and 2nd dopo l’estate (credo). In questo libro, Jacob, il protagonista, si trova a Praga e insegna inglese. Parti del testo sono in ceco, ma si tratta solo di paroline o frasette sparse qua e là e quelle le ho lasciate in ceco anch’io. Però gli scambi più lunghi che il lettore deve immaginare che siano avvenuti in ceco l’autore li rende in inglese (e io in italiano), segnalandole con dei trattini al posto delle virgolette. I dialoghi che avvengono in inglese sono ovviamente  in inglese nell’originale (e io altrettanto ovviamente non posso che renderli in italiano).
Ma come comportarsi quando in questo testo l’inglese non è più una lingua che serve a veicolare un significato, ma è l’oggetto e il protagonista della narrazione, vuoi perché è la materia che viene insegnata, o perché un personaggio commette un errore, o perché un altro personaggio riflette su una sua caratteristica sintattica, grammaticale o fonetica? Che faccio? Anche qui trasporto tutto in un contesto italiano? Non è un eccessivo appiattimento linguistico del contesto di partenza, nonché un vero e proprio arbitrio senza senso, perché la lingua di cui si parla, la lingua che viene insegnata e su cui si riflette, la lingua che si storpia è l’inglese e non l’italiano? Per cui uno (il traduttore) dice: ok, lasciamo che il personaggio sbagli a pronunciare una parola inglese e non una italiana, facciamolo parlare della regola grammaticale inglese, facciamogli ripetere la frasetta inglese. Ma cosa fare se il discorso – come accade in questo libro – si protrae per paragrafi e paragrafi? Cosa fare se – come succedeva in Bambina mia di Tupelo Hassman – la protagonista, una bambina che va a scuola, è alle prese con lo spelling di alcune parole che poi compaiono nel testo, vengono ripetute nei dialoghi, hanno un peso notevole nell’economia della storia? Cosa fare quando un personaggio londinese come Lionel Asbo pronuncia f tutte le th? Imprecare tantissimo, ok. Ma poi? Gli facciamo pronunciare guera invece di guerra, robba invece di roba o tennico invece di tecnico?
Non si può cancellare ogni traccia della lingua di partenza, quando questa non è e non vuole essere trasparente: sarebbe incongruo, bisogna lasciarla trapelare anche nel testo tradotto. Il problema sta nel capire fino a che punto questo si può fare e soprattutto come far sì che il passaggio dagli elementi originari che lascio nel testo – in quanto significati di per sé e non semplici significanti – alla lingua della traduzione (per ovvie esigenze narrative) sia senza scossoni. Non è facile, non sempre ci si riesce e una volta che il libro è andato in stampa capita (almeno a me capita) di pentirsi amaramente di certe scelte e voler rifare tutto da capo. Che angoscia, lo so.

7 pensieri su “Quando la lingua non è trasparente

    • Per Necessary Errors ancora niente, è in revisione ora. Io personalmente ho lasciato molte parole e frasette in inglese quando il contesto era la lezione d’inglese. Ma quando ci sono dialoghi lunghi e complessi è dura, lì sono passata all’italiano. Ma qualsiasi decisione prendi in questi casi c’è sempre una parte di te che scuote la testa.

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