I calchi e le influenze del traduttese sull’italiano letterario

4567004570_d7d9148e7d_zPer noi traduttori calco, di solito, è una parolaccia. Cerchiamo di evitare i calchi, ci vergogniamo quando il revisore ce li scova e ce li corregge, li consideriamo il distintivo del cattivo traduttore e della sciatteria linguistica in genere. Inutile dire che non tutti i calchi sono il male e che il calco – come il prestito, come alcuni errori invalsi nell’uso – è un elemento fondamentale nell’evoluzione di una lingua. Ma secondo quale criterio una lingua accetta alcuni calchi e ne stigmatizza altri? Perché nessuno fa una piega (o non più) davanti a “grattacielo” o “fine settimana”, ma molti storcono il naso quando sentono “realizzare” al posto di “rendersi conto di” o “quotare” per dire “citare o sottoscrivere un commento o un’opinione su un sito/forum/blog/social network”? Forse perché primi due esempi coprono un vero vuoto semantico mentre i secondi sostituiscono parole o espressioni già esistenti. Quando un calco si attesta, però, non è solo perché va a colmare un vuoto, ma anche per una questione di economia lessicale: se l’espressione ricalcata su un modello straniero ci fa risparmiare qualche parola probabilmente prima o poi si imporrà sul suo omologo autoctono. Non stupiamoci, quindi, se anche realizzare e quotare un giorno saranno accettati come corretti e non saranno nemmeno più percepiti come calchi.

In che misura, allora, il calco è da considerarsi un errore? Probabilmente quando questo non rispecchia né un uso prescrittivo né un uso descrittivo della lingua, ma una sciatteria o una pigrizia linguistica del parlante o del traduttore. Grattacielo è un calco accettato (prescrittivo), realizzare è un calco usato (descrittivo) educazione per dire istruzione è un calco di sciatteria (semplicemente perché, per il momento, non è un calco diffusissimo). Questo per quanto riguarda i calchi lessicali, che sono facili da individuare e, se è il caso, correggere. Ma nelle traduzioni letterarie dall’inglese, più numerosi e subdoli dei calchi lessicali sono i calchi della struttura sintattica della frase originale. In una traduzione l’aderenza alla costruzione della frase di partenza non sempre è sinonimo di fedeltà, ma rischia di essere sinonimo di sciatteria. Cambiare la struttura della frase di partenza per la resa nella lingua d’arrivo non sempre vuol dire prendersi delle libertà allontanandosi dal testo originale. Riconoscere quando e come cambiare la struttura di una frase in traduzione è un tratto distintivo del traduttore capace.

Nella narrativa in lingua inglese si trovano spesso costruzioni di questo tipo*:

1) Frasi introdotte da “as”. Esempio: As she turned from the window and crawled back into bed, Eric saw that she’d been crying.

2) Frequente uso dell’avverbio then. Esempio: Alice made another pass, hugging the side of the pool, then returned to the rope. Small waves rippled the surface, catching and throwing the overhead light, then they petered out.

3) He/she said + forma in ing. Esempio: “Good,” she said, reaching for his other foot and bringing it into her lap. “Good, that’s nice to hear.”

4) Breve frammento di discorso diretto + he/she said + resto del discorso diretto. “Oh,” Griff said. “Oh, wow.”

La resa pigra di queste strutture fa sì che nelle traduzioni italiane da testi in inglese si trovino spesso frasi introdotte da “mentre” o “quando”, una pletora di “poi” o “dopo, un’infinità di gerundi, discorsi diretti interrotti da “disse” pleonastici.

Sarebbe interessante osservare se e quanto questi calchi sintattici, oltre alla loro fisiologica presenza nelle traduzioni dall’inglese, alla lunga si ritrovino anche nella produzione letteraria in lingua italiana. In due parole: in che misura gli scrittori italiani sono influenzati dalle (cattive/sciatte) traduzioni dall’inglese?

* Per mia comodità, gli esempi sono tutti tratti da Remember Me Like This di Bret Anthony Johnston, perché sto finendo di tradurlo e ce l’ho sotto mano.

13 pensieri su “I calchi e le influenze del traduttese sull’italiano letterario

  1. Romanzo bellissimo, per inciso, quello di Johston. Io aggiungerei, ma ormai è una battaglia di retroguardia, l’uso dei deittici con il passato. Come nella classica frase “Oggi si sentiva più serena”. Calco che, in italiano, si trasforma in un errore logico. Lo stesso vale, secondo me, per “questo” (quando non si riferisce al récit, al discorso, ma alla realtà diegetica), “qui”, “ora”, ecc. Che ne pensi?

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    • Ce ne sono tanti, Mario, molti di più di quelli che ho elencato io. C’è per esempio quella specie di ablativo assoluto dell’inglese letterario (esempio che mi invento ora, per fare capire: She was sitting in the dark, her eyes closed) che reso pari pari in italiano, senza aggiungerci nemmeno un con, fa tanto “sparse le trecce morbide”.
      Poi, per carità, come dicevo nel mio post i calchi sono vitali e spesso arricchiscono la lingua se vanno a colmare dei vuoti non solo sintattici, ma anche per rendere delle sfumature. A volte nelle traduzioni però, ahimè, non c’è dietro un ragionamento e una scelta consapevole, ma solo pigrizia e sciatteria. E non me ne chiamo fuori, chissà quante volte mi sono macchiata io di simili sciatterie.

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  2. Interessanti le quattro costruzioni che lei ritiene suscettibili di calco. Io e un mio collega abbiamo cercato di rispondere a una domanda simile a quella che si pone lei alla fine del post: come è cambiato l’italiano letterario negli ultimi decenni e in quale misura le traduzioni letterarie dall’inglese hanno contribuito al suo mutamento? Se le interessa, la nostra analisi è stata pubblicata sulla rivista Letteratura e letterature: http://www.libraweb.net/sommari.php?chiave=98 (Romanzi italiani e romanzi tradotti dall’inglese: un’analisi stilistica comparativa)

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  4. Sono reduce da un’illuminante lezione del grande Norman Gobetti, dove si è trattato proprio del calco linguistico e del rischio che il traduttore, nel tentativo di evitarlo come la peste, crei strutture linguistiche ancor più lontane dall’italiano. La sua definizione di calco, ovvero di una resa italiana che non è “fedele” – leggasi “leale” – al senso profondo dell’espressione originaria (“battere / toccare legno”, per esempio invece di “toccare ferro”) mi pare un buon discrimine per affrontare con meno patemi il problema. Per assurdo, se la metropolitanamente leggendaria “piovono cani e gatti”, pur non corrispondendo all’atteso “piove a catinelle”, rende il senso profondo dell’espressione originaria, irreale anche in inglese, perché non renderla para para in italiano? Ovviamente la mia qui è solo una provocazione, però…

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      • Da bocciare perché nel lettore italiano non evoca immediatamente il gesto apostolico legato a un contesto culturale, mentre i cani e i gatti che piovono evoca un’ immagine.

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      • Su questo però io non sono d’accordissimo. Nel senso che ogni volta poi finisco per tradurre tocchiamo ferro o incrociamo le dita, ma in effetti nel mondo anglosassone quello fanno: battono sul legno, e non ci troverei niente di male se un traduttore decidesse di descrivere semplicemente l’azione che il personaggio compie realmente.

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      • Non ci sarebbe il rischio di creare “rumore”, di confondere il lettore con un gesto o la descrizione di un gesto che ha una sua realtà concreta prima di quella metaforica?

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      • Può anche darsi, e infatti io sono una traduttrice che in fondo non vuole straniare il suo lettore più di tanto e nove volte su dieci sceglie “toccare ferro”. Ma secondo me qui scatta uno strano meccanismo: se la narrazione ha luogo in America o in Inghilterra tendiamo ad adattare. Se invece si svolge in un posto che percepiamo come più esotico tendiamo a conservare la peculiarità dei realia perché l’adattamento ci sembrerebbe fuori luogo. A un abitante di un villaggio africano gli lasceremmo fare il suo gesto apotropaico vero, per quanto bizzarro. All’americano gli facciamo toccare ferro perché… già, perché?

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  5. Intervento interessante. Ormai “realizzare” nel senso di rendersi conto credo sia piuttosto stabile in italiano, e addirittura il Sabatini-Coletti, come anno di prima attestazione di quest’accezione, riporta 1938. Quindi penso si possano trovare diversi esempi nell’italiano letterario contemporaneo. Diciamo che può essere utile in alcuni casi, per evitare di ripetere lo stesso verbo piú volte.

    E sono d’accordo, sarebbe interessante vedere come i calchi dall’inglese influenzino i nostri scrittori contemporanei…

    Riguardo all’espressione “touch wood”, invece, è interessante quanto scrive Franca Cavagnoli nel libro “La voce del testo”: in un classico il traduttore potrebbe anche usare “toccare legno”, dando così la possibilità al lettore di riflettere e dire «”Non sapevo che in Inghilterra si toccasse legno”. E gli si darebbe anche la possibilità di imparare una curiosità sulla cultura di quel [P]aese».
    Questo soprattutto se il personaggio nel romanzo/racconto sta effettivamente toccando un oggetto di legno.
    In un romanzo d’evasione, invece, è preferibile rendere l’espressione con un semplice “toccare ferro”, per evitare di rallentare la lettura e confondere il lettore.

    Quindi, come sempre, dominante e (un po’ di) coraggio.

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