Non è mica da questi particolari

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“Bene o male, l’importante è che se ne parli” è un modo di dire che prima di fare la traduttrice non avevo mai capito fino in fondo, perché, come ci insegnavano anche le schede di valutazione dei programmi televisivi fatte da Sorrisi e Canzoni degli anni ’70, una cosa è essere conosciuti e un’altra cosa il gradimento, e non mi è mai stato chiarissimo perché qualcuno dovrebbe gioire del fatto che si parli tanto, e male, di lui.  Da quando traduco libri, però, un po’ ho cominciato a intuire uno dei possibili sensi di questa massima. Se ci lamentiamo che i giornalisti, e persino a volte gli editori, si dimenticano di citare il nostro nome nelle sedi opportune, il fatto di essere oggetto di critiche, a volte anche di stroncature, non solo da parte degli addetti ai lavori, ma anche di lettori, non può che essere il segno lampante che non siamo più così invisibili.

Quindi grazie lettore che su Amazon scrivi che il traduttore è un poveraccio che non sa né l’italiano né l’inglese, grazie recensore che dici che la traduzione è un compitino di seconda media fatto male. Grazie a tutti voi che vi accorgete che esistiamo.
Però. Però, e dico un’ovvietà, le critiche, anche quelle più argomentate e costruttive fanno male. Figuriamoci quelle fatte senza cognizione di causa. Perché siano veramente costruttive, perché parlino della traduzione e al traduttore e non delle idiosincrasie personali e dei rosicamenti del recensore di turno, vanno fatte come Cristo comanda.

Comunque, al netto del fastidio che prova il criticato anche quando la stroncatura è sacrosanta, argomentata e priva di tracce di cazzimma, io dividerei le critiche in due macrocategorie: quelle dei semplici fruitori e quelle degli addetti ai lavori. Non è una divisione per importanza e non con questo non intendo assolutamente suggerire che il parere di un addetto ai lavori abbia più peso di quello di un lettore.

Critiche dei semplici fruitori. Parlo dei commenti su siti tipo Amazon, Anobii o IBS, dei thread nei forum, dei post su Facebook in cui si dice: “Ma perché il traduttore ha reso x con xy? Ma vi sembra italiano corretto? Ma lo sa l’inglese/il francese/ecc.?”
Queste critiche sono comunque importanti, perché è per i lettori che lavoriamo. Non si può pretendere che a esprimere un parere siano solo gli esperti.
Qui ci troviamo davanti a due verità sacrosante, e forse inconciliabili: 1) il fruitore ha il diritto di esprimere i suoi gusti e a criticare anche aspetti tecnici di cui sa poco o niente perché parla della sua esperienza di lettura; 2) chi critica senza cognizione di causa corre il rischio dell'”effetto tassista che parla del governo”. In soldoni, dice cose che non stanno né in cielo né in terra ma si crede un esperto.
Quando leggiamo critiche al traduttore per la resa del titolo di un libro, per la punteggiatura, per i refusi, è chiaro che all’autore della critica sfugge il complesso lavoro di post-produzione, chiamiamolo così, che segue la consegna della traduzione e su cui il traduttore spesso ha poca o zero voce in capitolo.
Ci sono poi a volte lettori che storcono il naso davanti a regionalismi, sgrammaticature (volute), sbavature che evidentemente ricalcano un originale non pulito, non ortodosso. Ma non si sa bene perché per alcuni lettori la traduzione è ben riuscita se è scorrevole e in perfetto italiano. E poco importa se l’originale era legnoso e in una lingua volutamente grezza. Tra i lettori forti c’è lo stesso fenomeno di riccardonismo che a volte c’è tra gli appassionati di musica, che consiste nel dare valore principalmente alla perfezione formale, all’esecuzione virtuosistica perdendo di vista l’impatto estetico dell’opera nella sua totalità, con tutte le sue imperfezioni e sbavature.

Non mi addentro proprio nelle disamine sulla traduzione di film o serie di culto, perché – purtroppo o per fortuna – non ne ho esperienza diretta. Ma questi sono i casi in cui il traduttore è maggiormente esposto a critiche feroci. Spesso viene metaforicamente fatto a pezzi e dato in pasto ai cani.

Per quanto mi renda conto che la tentazione di rispondere a tono alle critiche è forte, a mio avviso in questi casi è meglio starsene buonini. Non credo che il traduttore debba intervenire per puntualizzare e dire la sua ogni volta che si imbatte online in una critica che ritiene ingiusta o frutto di scarsa informazione. Non è così, con il confronto-scontro diretto, che si “educano” i lettori. Secondo me, per quanto a volte fastidioso, il momento della critica “a ca@@o di cane” da parte dei fruitori è un passaggio fondamentale che dobbiamo accettare, è la necessaria pietra d’inciampo sul nostro percorso verso il riconoscimento sociale e professionale. Vuol dire che sanno che esistiamo, vuol dire che sanno che la qualità del nostro lavoro ha conseguenze importanti. Direi che oggi sono un po’ più lontani i tempi in cui Alessandro Baricco poteva dire con nonchalance: “Per me, se il testo è buono la traduzione non conta. Io per esempio ho letto Adorno e Steinbeck in pessime versioni italiane, ma mi sono piaciuti lo stesso!” (citazione presa da qui).
Poi, se siamo in grado di intervenire sui vari forum e social network per spiegare con giannimorandesca pazienza il motivo delle nostre decisioni ok, ma io, per me, me ne sto buonina.

Critiche degli addetti ai lavori. Qui il discorso si fa ovviamente un po’ diverso. Come dicevo prima, un addetto ai lavori (un altro traduttore, uno scrittore, un recensore di professione, un professore universitario) non ha più diritto di altri di esprimere la propria opinione sulla qualità di una traduzione, ma ha invece il dovere di argomentare in modo più scientifico le sue critiche rispetto al semplice lettore.  Non è facile stabilire in modo scientifico in cosa consiste o da cosa si riconosce una buona traduzione. Bruno Osimo ha scritto molto sul tema e sicuramente, come evidenziato dalla tabella in questo interessante articolo riassuntivo, ci sono degli errori belli e buoni o delle pratiche poco virtuose che fanno sì che una traduzione o comunque un approccio traduttivo si possano considerare fallimentari. Ma tutto il resto, più o meno, è gusto personale.
Un attento recensore che ha un suo metodo ben strutturato è senz’altro Tim Parks, che, quando analizza una traduzione, procede per confronti sistematici tra la versione di partenza e quella di arrivo con un’attenzione particolare alla fedeltà del traduttore nei confronti del registro, del senso reale delle parole, della struttura prosodica e ritmica della frase. Ovviamente anche questo metodo può avere i suoi limiti, una traduzione non è mai solo la somma delle sue parti, soprattutto non solo la somma delle sue parti peggio riuscite e magari, se ho peccato di infedeltà in un punto, per mia incapacità o per una oggettiva impossibilità di resa, avrò compensato in un altro punto del testo. Ma ciò detto, quello di Tim Parks è comunque un metodo di analisi solido e di tutto rispetto.
Quello che invece non voglio leggere nella stroncatura di un recensore addetto ai lavori (d’ora in poi RAL) è (solo) il sarcasmo, la battuta a effetto, il giudizio apodittico, quel velato “so tradurre meglio io” che fa capolino dietro ogni frecciatina. Io, traduttore criticato, voglio che il RAL proceda secondo un metodo di analisi a carte scoperte, che faccia una netta distinzione tra i veri e propri errori e le cose che semplicemente non corrispondono al suo gusto personale, le scelte che non avrebbe mai fatto ma che non sono errori o sbagliate di per sé.

La traduzione è un’architettura complessa che si regge su una serie di scelte e le scelte si sa che per loro natura sono esclusive e determinano anche una serie di scelte successive: se ho deciso di rendere x con y non solo non potevo renderlo anche con z, ma dovrò poi prendere strade che mi porteranno verso y1, y2, e y3, altrimenti mi crolla tutto l’impianto. Ora, se il RAL mi critica perché non c’è coerenza nell’economia delle MIE scelte traduttive, allora ben vengano le critiche. Ma se il RAL mi dice, in soldoni, che lui avrebbe tradotto diversamente (e grazie tante, ogni traduzione è diversa e lo stesso traduttore farebbe scelte diverse in momenti della sua vita, la traduzione è il panta rei per eccellenza) non sta dicendo per forza che la mia traduzione è sbagliata, per quanto sarcasmo possa usare per sottolineare quelli che sono semplicemente i suoi gusti.
Per essere più chiara faccio un esempio sui miei gusti personali: io non amo le traduzioni che ricalcano troppo fedelmente la sintassi dell’originale. Le mie conoscenze linguistiche mi permettono di giudicare soprattutto le traduzioni dall’inglese, quindi è di quelle che parlerò. Non amo le forme in -ing rese automaticamente con un gerundio, non amo le temporali che cominciano con “as” rese per forza con “mentre”. L’effetto che mi fa un testo italiano ricalcato sulla sintassi inglese è quello delle unghie su una lavagna. Ma posso dire che sia oggettivamente e inappellabilmente sbagliato tradurre così? No, non posso dirlo, posso solo dire che lo è per me. Ma non posso andare dai lettori – lettori forti – che hanno apprezzato libri tradotti in questo modo (ne ho in mente diversi) e dire loro che in realtà sbagliano, che quella traduzione è orrenda. Potrei, se qualcuno mi chiedesse di scrivere una recensione, parlare dei miei parametri e delle mie idee e fare un confronto con i parametri e le idee del traduttore il cui metodo non condivido. La degnazione sarcastica purtroppo non renderebbe il mio metodo di analisi più universale o scientifico.

Sì, certo, la critica negativa sprezzante e derisoria, come da sempre anche il pettegolezzo, è un mezzo per creare legami tramite l’esclusione di un terzo elemento; l’espressione del fastidio nei confronti di qualcosa o qualcuno (genere letterario che va per la maggiore nei nostri status su Facebook e strappa sempre una risata) genera simpatia tramite le idiosincrasie condivise. Ecco, io vorrei che le critiche alle traduzioni facessero un salto di qualità e andassero oltre questi meccanismi da stand-up comedy ormai superati.

6 pensieri su “Non è mica da questi particolari

  1. Bell’articolo! Sono traduttrice anch’io, e ti capisco perfettamente. E anch’io non sopporto le traduzioni che ricalcano pedissequamente la struttura della frase inglese, quindi probabilmente abbiamo anche gusti linguistici simili.
    Personalmente, l’unica critica su Amazon che mi ha fatto veramente arrabbiare è stata quando un lettore ha scritto male del traduttore (io) perché il testo era troppo ripetitivo. O rintronato, se il testo ripete 10 volte la stessa cosa è colpa del traduttore? Ma io non lo so.

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  2. Concordo su tutto. Parafrasando Truffaut, tutti hanno due lavori, il proprio e quello di critico letterario. E va benissimo. Purché non si passi all’attacco personale, come succede perfino con lettori che non hanno alcuna ragione per prendersela con te. Anche da un lettore comune, che lasci una recensione scritta su uno store, per esempio, mi aspetto qualcosa di più del “tradotto male”, senza una giustificazione. Perché poi, quando è tradotto bene, diventa “scritto magnificamente” e il traduttore torna invisibile…

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  3. Di una traduzione non si parla (quasi?) mai se è fatta bene. Il traduttore viene riconosciuto solo per essere criticato, e il più delle volte – credo – senza ragioni che vadano oltre il gusto personale (come viene detto dall’autrice dell’articolo).
    Mi viene in mente una citazione di Otto Jespersen: «È un fatto ben noto che non c’è campo delle conoscenze umane in cui il primo venuto creda d’aver maggior titolo a esprimere senza studio scientifico una propria opinione che nelle questioni concernenti la lingua materna». Oppure, nelle questioni concernenti la traduzione…

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  4. Pingback: Settimana 38 -2016 – Debora Serrentino – Foodie Translator

  5. Traduttrice presente. Hai detto molto bene: seguo qualche blog letterario e giudicare la traduzione è lo sport preferito. Ho anche notato che se l’editore è nel Gotha, la traduzione viene sempre bene; gli editori meno blasonati, invece, pubblicano roba malfatta per forza. Ma perché?

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