Zero K, DeLillo e il Molise come luogo dell’anima

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È uscito ieri Zero K, il nuovo romanzo di Don DeLillo. Le recensioni e le sinossi ci dicono che è un libro para-fantascientifico sul desiderio di dominare la morte attraverso la crioconservazione umana. A guardarlo più attentamente, più da vicino, si scopre che in realtà questo breve romanzo (170 cartelle in inglese) è un libro che parla delle parole. Della genesi delle parole, del dare nomi alle cose e alle persone, dell’importanza e dell’impossibilità di definire; parla della genesi e dell’evoluzione del linguaggio, di tutti i linguaggi.

La prima stesura di una traduzione per me, di solito, significa dover guardare un testo molto da vicino, vedere la trama del tessuto delle parole, con uno sguardo da scienziato, o se vogliamo da miope, che non tiene molto conto dell’immagine intera (cioè del racconto) e di cosa c’è sullo sfondo, ma prende in esame i singoli dettagli, le singole parole e le loro occorrenze. È in questa fase i difetti maggiori di una scrittura saltano fuori. Se di difetti ce ne sono. Non voglio dire che Zero K sia privo di difetti, non lo è, come non lo è mai nessun romanzo. Ma formalmente – osservato con lo sguardo scientifico/miope del traduttore – appare impeccabile. Avere a che fare con una scrittura simile, una scrittura così matura e consapevole di sé, è una delle fortune più grandi che possano capitare a un traduttore. La traduzione diventa quasi un gioco con precise e dettagliate istruzioni.

Le singole parole, dicevo. Alcune compaiono con notevole frequenza: door (comprese forme flesse e derivati) 110 volte, wall 102, hall 61, stone (e derivati) 31, dark 42, light 75, empty (e derivati) 45, silence (e derivati) 29, quiet (e derivati) 19, language 47, word 133, define (e derivati) 30. Alcune occorrenze, molto meno frequenti, sono comunque significative in un romanzo così breve e misurato: la locuzione in place compare 8 volte, il non comunissimo aggettivo somber 4. Con uno scrittore come DeLillo ha senso fare queste ricerche all’interno del testo, ha senso cercare per quanto possibile, di mantenere queste proporzioni nelle ripetizioni, ha senso cercare di contenere il fisiologico dilatarsi del testo italiano. Niente è casuale, e allo stesso tempo niente è studiato: è puro istinto intelligente.

A una seconda rilettura, quando ci si allontana dalle singole parole e si prende in considerazione la narrazione nel suo insieme, è lampante che la micro e la macrostruttura del libro sono speculari. La presenza massiccia di parole che evocano passaggi, varchi, luci e ombre, luoghi che sono non luoghi, silenzio e linguaggio, parole e pietre, rispecchia nella storia. Il protagonista narratore, più o meno a metà libro, dice: I was always good at maths. I felt sure of myself when I dealt with numbers. Numbers were the language of science.

C’è qualcosa di molto bello e commovente in questo tentativo da parte del protagonista, del padre del protagonista e di DeLillo come narratore di contenere la realtà, la vita e la morte stessa, all’interno di numeri, di definizioni scientifiche che assumono un valore quasi trascendente (“Sine cosine tangent. These were the mystical words”) e che alla fine non possono che essere parziali, fallaci, misere cose davanti alla brutalità e alla normalità della morte.

In italiano il libro uscirà tra qualche mese. Ma se potete leggetelo anche in originale. Ora, subito.

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